Come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sottomettono i Paesi poveri e incanalano le loro risorse verso quelli ricchi

di Alex Gladstein

I. I CAMPI DI GAMBERI

“Tutto è andato”

~ Kolyani Mondal

Cinquantadue anni fa il ciclone Bhola uccise circa 1 milione di persone sulla costa del Bangladesh. È, fino ad oggi, il ciclone tropicale più mortale mai registrato nella storia. Le autorità locali e internazionali conoscevano bene i rischi catastrofici di tali tempeste: negli anni ’60 i funzionari regionali avevano costruito una serie di dighe per proteggere la costa e aprire più territorio all’agricoltura; ma negli anni ’80, dopo l’assassinio del leader indipendentista Sheikh Mujibur Rahman, l’influenza straniera spinse il nuovo regime autocratico del Bangladesh a cambiare rotta. La preoccupazione per la vita umana fu accantonata e la protezione della popolazione contro le tempeste venne indebolita, tutto al fine d’incrementare le esportazioni per ripagare il debito.

Invece di rafforzare le foreste locali di mangrovie che proteggevano naturalmente un terzo della popolazione che viveva vicino alla costa, e invece d’investire nella coltivazione di cibo per nutrire una nazione in rapida crescita, il governo chiese prestiti alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale per espandere l’allevamento dei gamberi. Il processo di acquacoltura – controllato da una rete di élite legate al regime – prevedeva di spingere gli agricoltori ad accendere prestiti per “migliorare” le loro attività scavando buche nelle dighe che proteggevano la loro terra dall’oceano e riempiendo i loro campi, un tempo fertili, con acqua salata. Lavoravano ore massacranti per raccogliere manualmente i gamberi dall’oceano, trascinarli nei loro stagni e venderli ai signori dei gamberi locali.

Con i finanziamenti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, innumerevoli aziende agricole, le zone umide e le foreste di mangrovie circostanti vennero trasformate in stagni di gamberi conosciuti come gher. Il delta del fiume Gange è un luogo incredibilmente fertile, che ospita le Sundarban, la più grande distesa di foresta di mangrovie del mondo. Ma poiché l’allevamento commerciale di gamberi diventò la principale attività economica della regione, il 45% delle mangrovie venne tagliato, lasciando milioni di persone esposte alle onde di 10 metri che possono infrangersi contro la costa durante i grandi cicloni. I terreni coltivabili e la vita fluviale vennero lentamente distrutti dall’eccesso di salinità che fuoriusciva dal mare; intere foreste scomparvero poiché l’allevamento di gamberi uccise gran parte della vegetazione della zona, “trasformando questa terra, un tempo generosa, in un deserto acquoso”, secondo il Coastal Development Partnership.

Una fattoria nella provincia di Khuna, allagata per produrre campi di gamberi

I signori dei gamberi fecero fortuna e i gamberi stessi (noti come “oro bianco”) divennero la seconda esportazione del Paese. Nel 2014 più di 1,2 milioni di bengalesi lavoravano nell’industria dei gamberi, da cui dipendevano indirettamente 4,8 milioni di persone, circa la metà dei poveri della costa. I raccoglitori di gamberi, che svolgevano il lavoro più duro, costituivano il 50% della forza lavoro ma ottenevano solo il 6% del profitto. Il 30% di loro era composto da minori, i quali lavoravano fino a nove ore al giorno nell’acqua salata per meno di $1 al giorno; molti abbandonavano la scuola e rimanevano analfabeti per lavorare invece. Ci furono proteste contro l’espansione dell’allevamento di gamberi, solo per essere represse violentemente. In un caso eclatante, una manifestazione venne attaccata con esplosivi dai signori dei gamberi e dai loro delinquenti, e una donna di nome Kuranamoyee Sardar venne decapitata.

In un documento di ricerca del 2007, vennero esaminati 102 allevamenti di gamberi del Bangladesh, rivelando che, su un costo di produzione di $1.084 per ettaro, il reddito netto era di $689. I profitti della nazione generati dalle esportazioni non andavano nelle tasche dei lavoratori, i cui salari erano bassi e il cui ambiente era stato distrutto.

In una relazione della Environmental Justice Foundation, un agricoltore di nome Kolyani Mondal dice che “coltivava riso e allevava bestiame e pollame”, ma dopo che fu imposta la raccolta dei gamberi, “i suoi bovini e le sue capre svilupparono diverse malattie e, insieme alla le sue galline e le sue anatre, sono tutti morti”.

I suoi campi sono stati inondati di acqua salata e ciò che rimaneva era a malapena produttivo: anni prima la sua famiglia poteva generare “18-19 mon di riso per ettaro”, ma ora riesce a generarne solo uno. Ricorda l’allevamento di gamberi nella sua zona a partire dagli anni ’80, quando agli abitanti dei villaggi venivano promessi più guadagni, cibo e raccolti in abbondanza, però poi “tutto è andato”. Gli allevatori di gamberi che usano la sua terra le promisero $140 all’anno, ma lei dice che il meglio che ottiene sono “rate occasionali da $8 qua e là”. In passato, racconta, “la famiglia otteneva la maggior parte delle cose di cui aveva bisogno dalla terra, ma ora non ci sono alternative se non andare al mercato per comprare il cibo”.

In Bangladesh i miliardi di dollari di prestiti per “aggiustamenti strutturali” concessi dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale – chiamati così per il modo in cui costringono i Paesi debitori a modificare le loro economie per favorire le esportazioni a scapito dei consumi – hanno fatto crescere i profitti nazionali dei gamberi da $2,9 milioni nel 1973 a $90 milioni nel 1986 fino a $590 milioni nel 2012. Come nella maggior parte dei casi con i Paesi in via di sviluppo, le entrate sono state utilizzate per servire il debito estero, sviluppare risorse militari e riempire le tasche dei funzionari governativi. Per quanto riguarda i lavoratori dei gamberi, sono diventati più poveri: meno liberi, più dipendenti e meno capaci di nutrirsi rispetto a prima. A peggiorare le cose, gli studi dimostrano che “i villaggi protetti dalle tempeste dalle foreste di mangrovie subiscono un numero significativamente inferiore di morti” rispetto ai villaggi in cui tali protezioni sono state rimosse o danneggiate.

Sotto la pressione dell’opinione pubblica, nel 2013 la Banca Mondiale ha prestato al Bangladesh $400 milioni per cercare d’invertire il danno ecologico. In altre parole, alla Banca Mondiale verrà pagata una commissione sotto forma d’interessi per cercare di risolvere il problema che essa stessa ha creato. Nel frattempo la Banca Mondiale ha prestato miliardi a Paesi di tutto il mondo, dall’Ecuador al Marocco e all’India, per sostituire l’agricoltura tradizionale con la produzione di gamberi.

La Banca Mondiale sostiene che il Bangladesh è “una storia straordinaria di riduzione della povertà e di sviluppo”. Sulla carta la vittoria è presto detta: Paesi come il Bangladesh tendono a mostrare una crescita economica nel tempo poiché le loro esportazioni aumentano, ma i proventi vanno principalmente alle élite e ai creditori internazionali. Dopo 10 aggiustamenti strutturali, il debito del Bangladesh è cresciuto esponenzialmente da $145 milioni nel 1972 al massimo storico di $95,9 miliardi nel 2022. Il Paese sta attualmente affrontando l’ennesima crisi della bilancia dei pagamenti e proprio questo mese ha accettato di prendere il suo undicesimo prestito dall’FMI, questa volta un piano di salvataggio da $4,5 miliardi, in cambio di ulteriori aggiustamenti strutturali. La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale affermano di voler aiutare i Paesi poveri, ma il risultato chiaro dopo più di 50 anni di linee di politica simili è che nazioni come il Bangladesh sono più dipendenti e indebitate che mai.

Durante gli anni ’90, sulla scia della crisi del debito del Terzo Mondo, si verificò un aumento del controllo pubblico sulla Banca Mondiale e sul Fondo Monetario Internazionale: studi critici, proteste di piazza e una convinzione diffusa e bipartisan (anche nelle aule del Congresso degli Stati Uniti) che queste istituzioni non solo erano dispendiose ma soprattutto distruttive. Questo sentimento e questo focus sono in gran parte svaniti, oggi riescono a mantenere un basso profilo sulla stampa. Quando emergono, tendono a essere liquidati come irrilevanti, accettati come problematici ma necessari, o addirittura accolti come utili.

La realtà è che queste organizzazioni hanno impoverito e messo in pericolo milioni di persone, arricchito dittatori e cleptocrati e hanno messo da parte i diritti umani per generare un flusso multimiliardario di cibo, risorse naturali e manodopera a basso costo dai Paesi poveri a quelli ricchi. Il loro comportamento in Paesi come il Bangladesh non è un errore né un’eccezione: è il loro modo principale di fare affari.

II. ALL’INTERNO DELLA BANCA MONDIALE E DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE 

“Ricordiamoci che lo scopo principale degli aiuti non è quello di aiutare le altre nazioni, ma noi stessi”

~ Richard Nixon

L’FMI è il prestatore internazionale di ultima istanza e la Banca Mondiale è la più grande banca di sviluppo del mondo. Il loro lavoro viene svolto per conto dei loro principali creditori, che storicamente sono stati gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, la Germania e il Giappone.

Gli uffici dell’FMI e della Banca Mondiale a Washington

Le organizzazioni sorelle – riunite fisicamente nella loro sede a Washington, DC – furono create alla conferenza di Bretton Woods nel New Hampshire nel 1944 come pilastri del nuovo ordine monetario globale guidato dagli Stati Uniti. Per tradizione, la Banca Mondiale è guidata da un americano e l’FMI da un europeo.

Il loro scopo iniziale era quello di aiutare a ricostruire l’Europa e il Giappone devastati dalla guerra, con la Banca Mondiale che si concentrava su prestiti per progetti di sviluppo e il Fondo Monetario Internazionale che si occupava dei problemi della bilancia dei pagamenti attraverso “salvataggi”, in modo da sostenere il flusso commerciale anche se i Paesi non potevano farlo permettersi più importazioni.

Le nazioni sono tenute ad aderire all’FMI per avere accesso ai “vantaggi” della Banca Mondiale. Oggi ci sono 190 stati membri: ognuno di essi ha depositato la propria valuta più una “valuta più forte” (tipicamente dollari, valute europee, o oro) quando vi ha aderito, creando un bacino di riserve.

Quando i membri incappano in problemi cronici nella bilancia dei pagamenti e non possono rimborsare i prestiti, il Fondo Monetario Internazionale offre loro credito da suddetto bacino a multipli variabili di quanto inizialmente depositato, a condizioni sempre più costose.

Il Fondo Monetario Internazionale è tecnicamente una banca centrale sovranazionale, poiché dal 1969 conia una propria valuta: i diritti speciali di prelievo (DSP), il cui valore si basa su un paniere delle principali valute del mondo. Oggi i DSP sono coperti per il 45% da dollari, per il 29% da euro, per il 12% da yuan, per il 7% da yen e per il 7% da sterline. La capacità totale di prestito dell’FMI ammonta oggi a $1.000 miliardi.

Tra il 1960 e il 2008 il Fondo Monetario Internazionale si è concentrato principalmente sull’assistenza ai Paesi in via di sviluppo con prestiti a breve termine e ad alto tasso d’interesse. Poiché le valute emesse dai Paesi in via di sviluppo non sono liberamente convertibili, di solito non possono essere riscattate con beni o servizi all’estero. Gli stati in via di sviluppo devono invece guadagnare valuta forte attraverso le esportazioni. A differenza degli Stati Uniti, che possono semplicemente emettere la valuta di riserva globale, Paesi come lo Sri Lanka e il Mozambico spesso rimangono senza soldi. A quel punto la maggior parte dei governi – soprattutto quelli autoritari – preferiscono la soluzione rapida: prendere in prestito dal Fondo Monetario Internazionale a tutela del futuro del proprio Paese.

Per quanto riguarda la Banca Mondiale, si afferma che il suo compito è fornire credito ai Paesi in via di sviluppo per “ridurre la povertà, aumentare la prosperità condivisa e promuovere lo sviluppo sostenibile”. La Banca Mondiale stessa è divisa in cinque parti, che vanno dalla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS), e si concentra sui prestiti “forti” più tradizionali ai Paesi in via di sviluppo più grandi (si pensi al Brasile o all’India) all’Associazione Internazionale per lo Sviluppo (IDA), che si concentra su prestiti “leggeri” senza interessi con lunghi periodi di grazia per i Paesi più poveri. La BIRS guadagna in parte attraverso l’Effetto Cantillon: accendendo prestiti a condizioni favorevoli dai suoi creditori e dal mercato privato che hanno un accesso più diretto a capitali più economici e poi prestando tali fondi a condizioni più elevate ai Paesi poveri che non hanno tale accesso.

I prestiti della Banca Mondiale sono tradizionalmente specifici per progetti, o settori, e si concentrano sulla facilitazione dell’esportazione di materie prime (ad esempio: finanziamento di strade, tunnel, dighe e porti necessari per estrarre i minerali e nei mercati internazionali) e sulla trasformazione dell’agricoltura di consumo tradizionale in agricoltura industriale o acquacoltura, in modo che i Paesi possano esportare più cibo e beni verso l’Occidente.

Gli stati membri della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale non hanno potere di voto in base alla loro popolazione, la loro influenza è stata creata settant’anni fa per favorire gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone rispetto al resto del mondo. Tale posizione dominante si è indebolita solo leggermente negli ultimi anni.

Oggi gli Stati Uniti detengono ancora la quota maggiore di voti, pari al 15,6% della Banca Mondiale e al 16,5% del Fondo Monetario Internazionale, sufficienti per porre il veto da soli su qualsiasi decisione importante, cosa che richiede l’85% dei voti in entrambe le istituzioni. Il Giappone possiede il 7,35% dei voti nella Banca Mondiale e il 6,14% nel Fondo Monetario Internazionale; Germania 4,21% e 5,31%; Francia e Regno Unito 3,87% e 4,03% ciascuno; e Italia 2,49% e 3,02%.

Al contrario, l’India con i suoi 1,4 miliardi di abitanti ha solo il 3,04% dei voti nella Banca Mondiale e solo il 2,63% nel Fondo Monetario Internazionale: meno potere del suo ex-padrone coloniale nonostante abbia una popolazione 20 volte più grande. Gli 1,4 miliardi di cinesi hanno il 5,7% e il 6,08%, più o meno la stessa quota dei Paesi Bassi più Canada e Australia. Brasile e Nigeria, i Paesi più grandi dell’America Latina e dell’Africa, hanno all’incirca la stessa influenza dell’Italia, ex-potenza imperiale in pieno declino.

La piccola Svizzera, con appena 8,6 milioni di abitanti, ha l’1,47% dei voti alla Banca Mondiale e l’1,17% dei voti al Fondo Monetario Internazionale: più o meno la stessa quota di Pakistan, Indonesia, Bangladesh ed Etiopia messi insieme, nonostante abbia 90 volte meno abitanti.

Popolazione & diritti di voto nell’FMI

Si suppone che queste quote di voto si avvicinino alla quota di ciascun Paese nell’economia mondiale, ma la loro struttura di epoca imperiale aiuta a influenzare il modo in cui vengono prese le decisioni. Sessantacinque anni dopo la decolonizzazione, le potenze industriali guidate dagli Stati Uniti continuano ad avere un controllo più o meno totale sul commercio e sui prestiti mondiali, mentre i Paesi più poveri di fatto non hanno alcuna voce in capitolo.

l G-5 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito e Francia) dominano il consiglio esecutivo del Fondo Monetario Internazionale, anche se costituiscono una percentuale relativamente piccola della popolazione mondiale. Il G-10 più Irlanda, Australia e Corea costituiscono oltre il 50% dei voti, il che significa che con un po’ di pressione sui loro alleati, gli Stati Uniti possono prendere decisioni anche su decisioni di prestito specifiche che richiedono la maggioranza.

Per integrare il potere di prestito da migliaia di miliardi di dollari dell’FMI, il gruppo della Banca Mondiale richiede più di $350 miliardi in prestiti in più di 150 Paesi. Questo credito ha registrato un’impennata negli ultimi due anni, poiché le organizzazioni sorelle hanno prestato centinaia di miliardi di dollari ai governi che hanno bloccato le loro economie in risposta alla crisi sanitaria.

Negli ultimi mesi la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno iniziato a orchestrare accordi da miliardi di dollari per “salvare” quei governi messi in pericolo dagli aumenti dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve. Questi clienti sono spesso violatori dei diritti umani che accendono prestiti senza il permesso dei loro cittadini, che alla fine saranno i responsabili del rimborso del capitale più gli interessi. L’FMI, ad esempio, sta attualmente salvando il dittatore egiziano Abdel Fattah El-Sisi – responsabile del più grande massacro di manifestanti dai tempi di Piazza Tiananmen – con $3 miliardi. Nel frattempo la Banca Mondiale, durante lo scorso anno, ha erogato un prestito da $300 milioni al governo etiope che stava commettendo un genocidio nel Tigray.

L’effetto cumulativo delle linee di politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale è molto maggiore dell’importo dei loro prestiti, poiché essi alimentano l’assistenza bilaterale. Si stima che “ogni dollaro fornito al Terzo Mondo dall’FMI sblocca ulteriori $4-7 in nuovi prestiti e rifinanziamenti da parte delle banche commerciali e dei governi dei Paesi ricchi”. Allo stesso modo, se la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale rifiutano di concedere prestiti a un particolare Paese, il resto del mondo generalmente segue l’esempio.

È difficile sopravvalutare il vasto impatto che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno avuto sui Paesi in via di sviluppo, soprattutto nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Nel 1990 e alla fine della Guerra Fredda, l’FMI aveva esteso il credito a 41 Paesi dell’Africa, 28 Paesi dell’America Latina, 20 Paesi dell’Asia, otto Paesi del Medio Oriente e cinque Paesi dell’Europa, influenzando 3 miliardi di persone, ovvero quelli che allora rappresentavano i due terzi della popolazione mondiale. La Banca Mondiale ha concesso prestiti a più di 160 Paesi. Da tutto questo capite che sono ancora le istituzioni finanziarie internazionali più importanti del pianeta.

III. AGGIUSTAMENTO STRUTTURALE

“L’aggiustamento è un compito sempre nuovo e senza fine”

~ Otmar Emminger, ex-direttore dell’FMI e ideatore dei DSP

Al giorno d’oggi i titoli dei giornali sono pieni di storie sulle visite dell’FMI in Paesi come lo Sri Lanka e il Ghana. Il risultato è che il Fondo Monetario Internazionale presta miliardi di dollari ai Paesi in crisi in cambio del cosiddetto aggiustamento strutturale.

In un prestito il cui fine è l’aggiustamento strutturale, i mutuatari non solo devono rimborsare il capitale più gli interessi: devono anche accettare di cambiare le loro economie in base alle richieste della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Questi requisiti prevedono quasi sempre che i clienti massimizzino le esportazioni a scapito del consumo interno.

Durante la ricerca per questo saggio, ho imparato molto dal lavoro di Cheryl Payer, la quale ha scritto libri e articoli fondamentali sull’influenza della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale negli anni ’70, ’80 e ’90. Potrei non essere d’accordo con le “soluzioni” della Payer – che, come quelle della maggior parte dei critici di suddette istituzioni, tendono ad essere socialiste – ma molte delle sue osservazioni sull’economia mondiale sono vere indipendentemente dall’ideologia.

“Uno scopo esplicito e basilare dei programmi dell’FMI”, ha scritto, “è quello di scoraggiare il consumo locale al fine di liberare risorse per l’esportazione”.

Questo punto non potrà mai essere sottolineato abbastanza.

La versione ufficiale è che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale sono stati progettati per “promuovere una crescita economica sostenibile, promuovere standard di vita più elevati e ridurre la povertà”. Ma le strade e le dighe costruite dalla Banca Mondiale non sono progettate per contribuire a migliorare i trasporti e l’elettricità per la gente del posto, ma piuttosto per rendere più facile per le multinazionali l’estrazione di ricchezza. E i salvataggi forniti dall’FMI non sono volti a “salvare” un Paese dalla bancarotta – che probabilmente sarebbe la cosa migliore in molti casi – ma piuttosto a consentirgli di ripagare il proprio debito con ancora più debito, in modo che il prestito originale non si trasformi in un buco nel bilancio di una banca occidentale.

Nei suoi libri la Payer descrive come le istituzioni sostengano che la condizionalità dei loro prestiti consenta ai Paesi mutuatari “di raggiungere un equilibrio più sano tra commercio e pagamenti”, ma il vero scopo, dice, è “corrompere i governi per impedire loro di apportare cambiamenti economici che li renderebbero più indipendenti e autosufficienti”. Quando i Paesi rimborsano i loro prestiti per l’aggiustamento strutturale, viene data priorità al servizio del debito e la spesa interna dev’essere “aggiustata” verso il basso.

I prestiti dell’FMI venivano spesso assegnati attraverso un meccanismo chiamato “accordo stand-by”, una linea di credito che rilasciava fondi solo quando il governo mutuatario dichiarava d’aver raggiunto determinati obiettivi. Da Giakarta a Lagos fino a Buenos Aires, lo staff dell’FMI volava lì (sempre in prima classe o in business class) per incontrare i governanti non democratici e offrire loro milioni o miliardi di dollari in cambio del rispetto delle loro strategie economiche.

Le tipiche richieste dell’FMI includono:

Svalutazione della valutaAbolizione o riduzione dei controlli sui cambi e sulle importazioniContrazione del credito bancario nazionaleTassi d’interesse più altiAumento delle tasseFine dei sussidi al consumo su cibo ed energiaTetti ai salari
Restrizioni alla spesa pubblica, soprattutto nel settore sanitario e dell’istruzioneCondizioni legali favorevoli e incentivi per le multinazionaliSvendita delle imprese statali e dei crediti sulle risorse naturali

Anche la Banca Mondiale ha il suo programma:

L’apertura di regioni precedentemente remote attraverso investimenti nei trasporti e nelle telecomunicazioniAiuto alle multinazionali nel settore minerarioInsistenza sulla produzione per l’esportazionePressioni politiche sui mutuatari affinché migliorino i privilegi legali per le passività fiscali degli investimenti esteriOpposizione alle leggi sul salario minimo e all’attività sindacaleFine delle protezioni per le imprese localiFinanziamento di progetti che si appropriano di terra, acqua e foreste dei poveri e li consegnino alle multinazionaliContrazione della produzione manifatturiera e alimentare a scapito dell’esportazione di risorse naturali e materie prime

Nel corso del tempo i governi del Terzo Mondo sono stati costretti ad accettare un mix di queste linee di politica – a volte note come “Washington Consensus” – al fine d’innescare il rilascio continuo di prestiti da parte della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale.

Le ex-potenze coloniali tendono a concentrare i loro prestiti per lo “sviluppo” su ex-colonie o aree d’influenza: la Francia nell’Africa occidentale, il Giappone in Indonesia, la Gran Bretagna nell’Africa orientale e nell’Asia meridionale, e gli Stati Uniti in America Latina. Un esempio è la zona CFA, dove 180 milioni di persone in 15 Paesi africani sono ancora costrette a utilizzare una valuta coloniale francese. Su suggerimento dell’FMI, nel 1994 la Francia ha svalutato il CFA del 50% devastando il risparmio e il potere d’acquisto di decine di milioni di persone che vivono in Paesi che vanno dal Senegal alla Costa d’Avorio fino al Gabon, il tutto per rendere più competitive le esportazioni di materie prime.

L’esito delle linee di politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale nei confronti del Terzo Mondo è stato notevolmente simile a quanto sperimentato in precedenza durante l’imperialismo: deflazione dei salari, perdita di autonomia e dipendenza agricola. La grande differenza è che nel nuovo sistema le spade e le pistole sono state sostituite dal debito.

Negli ultimi 30 anni si è intensificato l’aggiustamento strutturale per quanto riguarda il numero medio di condizioni di prestito concesse dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Prima del 1980, la Banca Mondiale generalmente non concedeva prestiti per l’aggiustamento strutturale, ma erano legati a progetti o settori specifici. Da allora i prestiti di salvataggio sono diventati una parte preponderante della sua linea d’azione; per l’FMI sono la linfa vitale.

Ad esempio, quando l’FMI salvò la Corea del Sud e l’Indonesia con pacchetti da $57 e $43 miliardi durante la crisi finanziaria asiatica del 1997, impose pesanti condizioni. Secondo il politologo Mark S. Copelvitch, i mutuatari dovevano firmare accordi che “sembravano più alberi di Natale che contratti, infatti avevano dalle 50 alle 80 condizioni dettagliate che coprivano tutto, dalla deregolamentazione dei monopoli dell’aglio alle tasse sull’alimentazione del bestiame fino alle nuove leggi ambientali”.

Un’analisi del 2014 ha mostrato che l’FMI aveva posto, in media, 20 condizioni per ogni prestito concesso nei due anni precedenti, un aumento storico. Paesi come Giamaica, Grecia e Cipro hanno contratto prestiti negli ultimi anni con una media di 35 condizioni ciascuno. Vale la pena notare che le condizioni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale non hanno mai incluso la tutela della libertà di parola o dei diritti umani, o restrizioni sulle spese militari o sulla violenza da parte della polizia.

Un’ulteriore linea d’azione della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale è ciò che è noto come “doppio prestito”: il denaro viene prestato per costruire, ad esempio, una diga idroelettrica, ma la maggior parte se non tutto il denaro viene pagato alle società occidentali; il contribuente del Terzo Mondo viene gravato di capitale e interessi e il Nord viene ripagato il doppio.

Il contesto del doppio prestito è che gli stati dominanti estendono credito attraverso la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale alle ex-colonie, dove i governanti locali spesso spendono la nuova liquidità a vantaggio delle società multinazionali, le quali traggono poi profitto da servizi di consulenza, costruzione, o importazione. La conseguente e necessaria svalutazione monetaria, i controlli sui salari e la restrizione del credito bancario imposti dall’aggiustamento strutturale svantaggiano gli imprenditori locali che sono bloccati in un sistema isolato e al collasso, e avvantaggiano le multinazionali che sono native del dollaro, dell’euro o dello yen.

Un’altra fonte chiave è stato il magistrale libro, The Lords of Poverty, scritto dallo storico Graham Hancock, dove si riflette sui primi cinque decenni di politica della Banca Mondiale del Fondo Monetario Internazionale e sull’assistenza estera in generale.

“La Banca Mondiale”, scrive Hancock, “è la prima ad ammettere che per ogni $10 che riceve, circa $7 vengono spesi in beni e servizi provenienti dai Paesi industrializzati”.

Negli anni ’80, quando i finanziamenti della Banca Mondiale si stavano espandendo rapidamente in tutto il mondo, “per ogni dollaro statunitense versato dai contribuenti, 82 centesimi vengono immediatamente restituiti alle imprese americane sotto forma di ordini di acquisto”. Questa dinamica si applica non solo ai prestiti ma anche agli aiuti. Ad esempio, quando gli Stati Uniti o la Germania inviano un aereo di salvataggio in un Paese in crisi, il costo del trasporto, del cibo, delle medicine e degli stipendi del personale vengono aggiunti a ciò che è noto come APS, o “aiuto pubblico allo sviluppo”. Sulla carta sembra che si tratti di aiuto e assistenza, ma la maggior parte del denaro viene restituito alle aziende occidentali e non investito a livello locale.

Riflettendo sulla crisi del debito del Terzo Mondo degli anni ’80, Hancock osserva che “70 centesimi su ogni dollaro di assistenza americana non hanno mai lasciato gli Stati Uniti”. Il Regno Unito, da parte sua, in quel periodo ha speso ben l’80% dei suoi aiuti direttamente in beni e servizi britannici.

“Un anno”, scrive Hancock, “i contribuenti britannici fornirono alle agenzie di aiuto multilaterali £495 milioni; nello stesso anno, però, le aziende britanniche ricevettero contratti per un valore di £616 milioni”. Hancock ha affermato che “le agenzie multilaterali acquistano beni e servizi britannici per un valore equivalente al 120% del contributo multilaterale totale della Gran Bretagna”.

S’inizia a vedere come il cosiddetto “aiuto e assistenza” che tendiamo a considerare caritatevoli siano in realtà esattamente l’opposto.

E come sottolinea Hancock, i budget per gli aiuti esteri aumentano sempre, indipendentemente dal risultato. Proprio come i progressi sono la prova che gli aiuti funzionano, “la mancanza di essi è la prova che il dosaggio è stato insufficiente e dev’essere aumentato”.

Alcuni sostenitori degli aiuti esteri, scrive, “sostengono che sarebbe inopportuno negare gli aiuti ai più veloci (quelli che avanzano); altri, che sarebbe crudele negarlo ai bisognosi (coloro che ristagnano). Gli aiuti sono quindi come lo champagne: in caso di successo ce li si merita, in caso di fallimento se ne ha bisogno”.

IV. LA TRAPPOLA DEL DEBITO

“Il concetto di Terzo Mondo, o Sud del mondo, e la politica degli aiuti sono inseparabili. Sono due facce della stessa medaglia. Il Terzo Mondo è la creazione degli aiuti esteri: senza aiuti esteri non c’è Terzo Mondo”

~ Péter Tamás Bauer

Secondo la Banca Mondiale il suo obiettivo è “contribuire a migliorare il tenore di vita nei Paesi in via di sviluppo incanalando le risorse finanziarie dai Paesi sviluppati al mondo in via di sviluppo”.

Ma cosa succederebbe se la realtà fosse il contrario?

Inizialmente, a partire dagli anni ’60, si verificò un enorme flusso di risorse dai Paesi ricchi a quelli poveri. Questo venne apparentemente fatto per aiutarli a svilupparsi. La Payer scrive che è stato a lungo considerata una cosa “naturale” che il capitale “fluisse in una sola direzione, dalle economie sviluppate al Terzo Mondo”.

Il ciclo di vita di un prestito della Banca Mondiale: flussi di cassa positivi, poi profondamente negativi per il Paese mutuatario

Ma, come ci ricorda, “ad un certo punto il mutuatario deve pagare al suo creditore più di quanto ha ricevuto e per tutta la durata del prestito questo eccesso è superiore all’importo originariamente preso in prestito”.

Nell’economia mondiale questo punto si è verificato nel 1982, quando il flusso delle risorse si è invertito permanentemente. Da allora c’è stato un flusso netto annuale di fondi dai Paesi poveri a quelli ricchi. Iniziato con un flusso medio di $30 miliardi all’anno da Sud a Nord tra la metà e la fine degli anni ’80, oggi è nell’ordine delle migliaia di miliardi di dollari all’anno. Tra il 1970 e il 2007 – dalla fine del gold standard alla Grande Crisi Finanziaria – il servizio totale del debito pagato dai Paesi poveri a quelli ricchi è stato di $7.150 miliardi.

Trasferimenti netti di risorse dai Paesi in via di sviluppo: dal 1982 sempre più negativi

Per fare un esempio di come potrebbe essere in un dato anno, nel 2012 i Paesi in via di sviluppo hanno ricevuto $1.300 miliardi, compresi tutti i redditi, gli aiuti e gli investimenti. Ma quello stesso anno furono fuoriusciti più di $3.300 miliardi. In altre parole, secondo l’antropologo Jason Hickel, “i Paesi in via di sviluppo hanno inviato al resto del mondo $2.000 miliardi in più di quelli che hanno ricevuto”.

Sommando tutti i flussi dal 1960 al 2017, è emersa una triste verità: $62.000 miliardi sono stati drenati dai Paesi in via di sviluppo, l’equivalente di 620 Piani Marshall in dollari odierni.

L’FMI e la Banca Mondiale avrebbero dovuto risolvere i problemi della bilancia dei pagamenti e aiutare i Paesi poveri a diventare più forti e più sostenibili; le prove, invece, sono state esattamente l’opposto.

“Per ogni dollaro di aiuti che i Paesi in via di sviluppo ricevono”, scrive Hickel, “ne perdono $24 in deflussi netti”. Invece di porre fine allo sfruttamento e allo scambio ineguale, gli studi dimostrano che le linee di politica riguardanti l’aggiustamento strutturale li hanno aumentati.

Dal 1970 il debito pubblico estero dei Paesi in via di sviluppo è aumentato da $46 miliardi a $8.700 miliardi. Negli ultimi 50 anni Paesi come l’India, le Filippine e il Congo devono ora ai loro ex-padroni coloniali 189 volte l’importo che dovevano nel 1970. Hanno pagato $4.200 miliardi solo in interessi sin dal 1980.

L’aumento esponenziale del debito dei Paesi in via di sviluppo

Perfino la Payer – il cui libro del 1974, The Debt Trap, utilizzava i dati sui flussi economici per mostrare come l’FMI avesse intrappolato i Paesi poveri incoraggiandoli a prendere in prestito più di quanto avrebbero potuto ripagare – sarebbe scioccata dalle dimensioni della trappola del debito di oggi.

La sua osservazione secondo cui “il cittadino medio degli Stati Uniti o dell’Europa potrebbe non essere consapevole di questa enorme fuga di capitali da parti del mondo che ritiene pietosamente povere” è vera ancora oggi. Con mia grande vergogna, non conoscevo la vera natura del flusso mondiale di fondi e, prima d’intraprendere la ricerca per questo pezzo, presumevo che i Paesi ricchi sovvenzionassero quelli poveri. Il risultato finale è un vero e proprio schema Ponzi, in cui negli anni ’70 il debito del Terzo Mondo era così grande che era possibile ripagarlo solo con nuovo debito. Da allora è sempre stato lo stesso.

Molti critici della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale presumono che queste istituzioni stiano lavorando con il cuore al posto giusto e, quando falliscono, è a causa di errori, sprechi o cattiva gestione.

La tesi di questo saggio è che ciò non è vero e che i loro obiettivi non sono risolvere la povertà, ma piuttosto arricchire le nazioni creditrici a scapito di quelle povere.

Non sono disposto a credere che un flusso permanente di fondi dai Paesi poveri a quelli ricchi a partire dal 1982 sia un “errore”. Il lettore potrebbe contestare che l’accordo sia intenzionale e piuttosto potrebbe credere che sia un risultato strutturale inconscio. La differenza non ha molta importanza per i miliardi di persone che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno impoverito.

V. SOSTITUIRE IL DRENAGGIO COLONIALE DELLE RISORSE

“Sono stanco di aspettare. Non siete anche voi a favore di un mondo che diventa più buono, bello e gentile? Prendiamo un coltello e tagliamolo in due, vediamo poi quali vermi mangiano la buccia”

~ Langston Hughes

Alla fine degli anni Cinquanta, l’Europa e il Giappone si erano in gran parte ripresi dalla guerra e avevano ripreso una significativa crescita industriale, mentre i Paesi del Terzo Mondo erano a corto di fondi. Pur avendo bilanci sani negli anni ‘40 e all’inizio degli anni ‘50, i Paesi poveri ed esportatori di materie prime si trovarono ad affrontare problemi di bilancia dei pagamenti quando il valore delle loro materie prime crollò in seguito alla guerra di Corea. Quello fu il momento in cui scattò la trappola del debito e quando la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale aprì le chiuse di quelli che sarebbero finiti per diventare migliaia di miliardi di dollari in prestiti.

Quest’epoca segnò anche la fine ufficiale del colonialismo, poiché gli imperi europei si ritirarono dai loro possedimenti imperiali. Il presupposto dell’establishment per quanto riguarda lo sviluppo internazionale è che il successo economico delle nazioni sia dovuto “principalmente alle loro condizioni interne. I Paesi ad alto reddito hanno raggiunto il successo economico”, sostiene la teoria, “grazie al buon governo, alle istituzioni forti e al libero mercato. I Paesi a basso reddito non sono riusciti a svilupparsi perché mancano di queste cose, o perché soffrono di corruzione, burocrazia e inefficienza”.

Questo è certamente vero, ma un’altra ragione importante per cui i Paesi ricchi sono ricchi e i Paesi poveri sono poveri è che i primi hanno saccheggiato i secondi per centinaia di anni durante il periodo coloniale.

“La rivoluzione industriale britannica”, scrive Jason Hickel, “dipese in gran parte dal cotone, che veniva coltivato su terre sottratte con la forza agli indigeni americani, con manodopera da parte degli africani ridotti in schiavitù. Altri input cruciali e richiesti dai produttori britannici – canapa, legname, ferro, grano – venivano prodotti utilizzando il lavoro forzato nelle tenute della gleba in Russia e nell’Europa orientale. Nel frattempo l’estrazione britannica dall’India e da altre colonie finanziava più della metà del bilancio interno del Paese, pagando per le strade, gli edifici pubblici, lo stato sociale – tutti i mercati dello sviluppo moderno – consentendo allo stesso tempo l’acquisto di input necessari per l’industrializzazione.

La dinamica dei furti è stata descritta da Utsa e Prabhat Patnaik nel loro libro, Capital And Imperialism: le potenze coloniali come l’impero britannico avrebbero usato la violenza per estrarre materie prime dai Paesi deboli, creando una “fuga coloniale” di capitali che avrebbe rilanciato e sovvenzionato la vita a Londra, Parigi e Berlino. Le nazioni industrializzate avrebbero poi trasformato queste materie prime in manufatti e li avrebbero rivenduti alle nazioni più deboli, traendone enormi profitti e allo stesso tempo spiazzando la produzione locale. E – aspetto critico – avrebbe mantenuto bassa l’inflazione interna sopprimendo i salari nei territori coloniali: o attraverso la schiavitù totale, o pagandoli ben al di sotto del saggio del mercato mondiale.

Quando il sistema coloniale cominciò a vacillare, il mondo finanziario occidentale si trovò ad affrontare una crisi. I Patnaik sostengono che la Grande Depressione fu il risultato non solo dei cambiamenti nella politica monetaria occidentale, ma anche del rallentamento del drenaggio coloniale. Il ragionamento è semplice: i Paesi ricchi avevano costruito un nastro trasportatore delle risorse che fluivano dai Paesi poveri, e quando il nastro si ruppe, si ruppe anche tutto il resto. Tra gli anni ’20 e ’60 il colonialismo politico si estinse praticamente. Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia, Giappone, Paesi Bassi, Belgio e altri imperi furono costretti a rinunciare al controllo su più della metà del territorio e delle risorse mondiali.

Come scrivono i Patnaik, l’imperialismo è “un accordo per imporre la deflazione dei redditi alla popolazione del Terzo Mondo al fine di ottenere i loro beni primari senza incorrere nel problema dell’aumento del prezzo dell’offerta”.

Dopo il 1960 questa divenne la nuova funzione della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale: ricreare il flusso coloniale dai Paesi poveri ai Paesi ricchi che un tempo era mantenuto dal semplice imperialismo.

Il drenaggio post-coloniale dal Sud del mondo al Nord del mondo

I funzionari di Stati Uniti, Europa e Giappone volevano raggiungere un “equilibrio interno” – in altre parole, la piena occupazione. Ma si resero conto che non potevano farlo attraverso sussidi all’interno di un sistema isolato, altrimenti l’inflazione sarebbe diventata dilagante. Per raggiungere il loro obiettivo sarebbe stato necessario un contributo esterno da parte dei Paesi più poveri. Il plusvalore extra estratto dai lavoratori della periferia è noto come “rendita imperialista”. Se i Paesi industriali avessero potuto ottenere materiali e manodopera più economici e poi rivendere i prodotti finiti con un profitto, avrebbero potuto avvicinarsi sempre di più all’economia dei sogni dei tecnocrati. E il loro desiderio è diventato realtà: nel 2019 i salari corrisposti ai lavoratori nei Paesi in via di sviluppo erano pari al 20% del livello dei salari corrisposti ai lavoratori nei Paesi sviluppati.

Come esempio di come la Banca Mondiale abbia ricreato la dinamica della fuga coloniale, la Payer fornisce il caso della Mauritania degli anni ’60 nell’Africa nordoccidentale. Un progetto minerario chiamato MIFERMA fu firmato dagli occupanti francesi prima che la colonia divenisse indipendente. L’accordo alla fine divenne “solo un progetto di enclave vecchio stile: una città nel deserto e una ferrovia che porta all’oceano”, poiché l’infrastruttura era focalizzata esclusivamente sullo spostamento dei minerali verso i mercati internazionali. Nel 1969, quando la miniera rappresentava il 30% del PIL della Mauritania e il 75% delle sue esportazioni, il 72% del reddito veniva inviato all’estero e “praticamente tutto il reddito distribuito localmente ai dipendenti evaporava sotto forma d’importazioni”. Quando i minatori protestarono contro l’accordo neocoloniale, le forze di sicurezza li abbatterono selvaggiamente.

Geografia del drenaggio dal Sud del mondo dal 1960 al 2017

MIFERMA è un esempio stereotipato del tipo di “sviluppo” che è stato imposto al Terzo Mondo ovunque, dalla Repubblica Dominicana al Madagascar fino alla Cambogia. E tutti questi progetti si espansero rapidamente negli anni ’70, grazie al sistema del petrodollaro.

Dopo il 1973 i Paesi arabi dell’OPEC, con enormi surplus derivanti dall’impennata dei prezzi del petrolio, investirono i loro profitti in depositi e bond sovrani occidentali. I dittatori militari in America Latina, Africa e Asia si prefissarono grandi obiettivi: avevano preferenze temporali elevate ed erano felici di contrarre prestiti ponendo come garanzia le generazioni future.

Ad aiutare ad accelerare la crescita dei prestiti c’è stata la “rete di salvataggio dell’FMI”: le banche private hanno iniziato a credere (correttamente) che l’FMI avrebbe salvato i Paesi in caso di default, proteggendo i loro investimenti. Inoltre a metà degli anni settanta i tassi d’interesse erano spesso in territorio reale negativo, incoraggiando ulteriormente i mutuatari. Ciò, combinato con l’insistenza del presidente della Banca Mondiale, Robert McNamara, affinché l’assistenza estera si espandesse in modo significativo, provocò una frenesia del debito. Le banche statunitensi, ad esempio, tra il 1978 e il 1982 aumentarono il loro portafoglio di prestiti al Terzo Mondo del 300%, arrivando a $450 miliardi.

Il problema era che questi prestiti erano in gran parte accordi su tassi d’interesse variabili e, pochi anni dopo, tali tassi esplosero quando la Federal Reserve aumentò il costo globale del capitale quasi al 20%. Il crescente peso del debito, combinato con lo shock del prezzo del petrolio del 1979 e il conseguente crollo globale dei prezzi delle materie prime che alimentavano il valore delle esportazioni dei Paesi in via di sviluppo, aprirono la strada alla crisi del debito del Terzo Mondo. A peggiorare le cose, molto poco del denaro preso in prestito dai governi durante la frenesia del debito venne effettivamente investito nel cittadino medio.

Servizio del debito del Terzo Mondo nel tempo

Nel loro libro, Debt Squads, i giornalisti Sue Branford e Bernardo Kucinski, spiegano che tra il 1976 e il 1981, i governi latini (di cui 18 su 21 erano dittature) hanno preso in prestito $272,9 miliardi e di questa somma il 91,6% è stato speso per il servizio del debito, la fuga di capitali e la costituzione di riserve dei  regimi. Solo l’8,4% è stato utilizzato per investimenti interni e, anche di questi, molto è andato sprecato.

Carlos Ayuda ha descritto bene l’effetto del drenaggio alimentato dal petrodollaro sul suo stesso Paese:

La dittatura militare utilizzò i prestiti per investire in enormi progetti infrastrutturali – in particolare progetti energetici […] l’idea dietro la creazione di un’enorme diga e impianto idroelettrico nel mezzo dell’Amazzonia, ad esempio, era quella di produrre alluminio da esportare verso il Nord […] il governo accese ingenti prestiti e investì miliardi di dollari nella costruzione della diga di Tucuruí alla fine degli anni ’70, distruggendo le foreste native e allontanando un gran numero di popolazioni native e di poveri che vivevano lì da generazioni. Il governo avrebbe raso al suolo le foreste, ma i tempi erano talmente brevi che utilizzò l’Agente Arancio per defogliare la regione e poi sommerse i tronchi degli alberi spogli sott’acqua […] l’energia della centrale idroelettrica [veniva poi] venduta a $13-20 a megawatt quando il prezzo reale della produzione era di $48. I contribuenti fornirono i sussidi, finanziando energia a basso costo affinché le multinazionali vendessero il nostro alluminio sul mercato internazionale.

In altre parole, il popolo brasiliano pagò i creditori stranieri per distruggere il proprio ambiente, sfollare le masse e vendere le proprie risorse.

Oggi il drenaggio di risorse dai Paesi a basso e medio reddito è sconcertante: nel 2015 ha totalizzato 10,1 miliardi di tonnellate di materie prime e 182 milioni di anni di lavoro a persona, il 50% di tutti i beni e il 28% di tutto il lavoro utilizzati quell’anno dai Paesi ad alto reddito.

VI. UNA DANZA COI DITTATORI

“Potrebbe anche essere un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”

~ Franklin Delano Roosevelt

Affinché la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionaole finalizzino un prestito, sono necessarie due parti. Il problema è che il mutuatario è tipicamente un leader non eletto, o non responsabile, che prende la decisione senza consultarsi e senza il mandato popolare dei propri cittadini.

Come scrive la Payer in The Debt Trap: “I programmi dell’FMI sono politicamente impopolari, dato che danneggiano le imprese locali e deprimono il reddito reale dell’elettorato. Un governo che tenti di rispettare le condizioni stabilite nella sua lettera d’intenti al Fondo Monetario Internazionale probabilmente si ritroverà destituito dalla sua stessa popolazione”.

Pertanto l’FMI preferisce lavorare con clienti non democratici che possono licenziare più facilmente quei giudici problematici e reprimere le proteste di piazza. Secondo la Payer, i colpi di stato militari in Brasile nel 1964, Turchia nel 1960, Indonesia nel 1966, Argentina nel 1966 e Filippine nel 1972 furono esempi di leader opposti all’FMI e sostituiti con la forza da leader invece favorevoli all’FMI. Anche se quest’ultimo non fu coinvolto direttamente nei colpi di stato, in ognuno di essi arrivò con entusiasmo pochi giorni, settimane o mesi dopo e aiutare il nuovo regime ad attuare l’aggiustamento strutturale.

La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale condividono la volontà di sostenere i governi abusivi. È stata la Banca ad avviare una tale tradizione. Secondo il ricercatore sullo sviluppo Kevin Danaher: “Il triste primato della Banca Mondiale nel sostenere regimi militari e governi che violavano apertamente i diritti umani iniziò il 7 agosto 1947, con un prestito per la ricostruzione da $195 milioni ai Paesi Bassi. Diciassette giorni prima che il prestito venne approvato, i Paesi Bassi avevano scatenato una guerra contro i nazionalisti anti-colonialisti nel loro impero d’oltremare nelle Indie Orientali, le quali avevano già dichiarato la propria indipendenza come Repubblica d’Indonesia”.

“Gli olandesi”, scrive Danaher, “inviarono 145.000 soldati (da una nazione con soli 10 milioni di abitanti all’epoca, in difficoltà economica con il 90% della produzione del 1939) e misero in piedi un blocco economico totale delle aree controllate dai nazionalisti, causando fame e problemi di salute tra i 70 milioni di abitanti dell’Indonesia”.

Nei suoi primi decenni di vita la Banca Mondiale finanziò molti progetti coloniali di questo tipo, tra cui $28 milioni per l’apartheid in Rhodesia nel 1952, nonché prestiti all’Australia, al Regno Unito e al Belgio per “sviluppare” possedimenti coloniali in Papua Nuova Guinea, Kenya e Congo belga.

Sempre secondo Danaher, nel 1966 la Banca Mondiale sfidò apertamente le Nazioni Unite “continuando a prestare denaro al Sud Africa e al Portogallo nonostante le risoluzioni dell’Assemblea Generale che invitavano tutte le agenzie affiliate alle Nazioni Unite a cessare il sostegno finanziario a entrambi i Paesi”.

Danaher aggiunge che “la dominazione coloniale del Portogallo su Angola e Mozambico e l’apartheid del Sud Africa erano flagranti violazioni della Carta delle Nazioni Unite, ma la Banca Mondiale sosteneva che l’Articolo IV, Sezione 10 della sua Carta, che proibisce l’ingerenza negli affari politici di qualsiasi membro, la obbliga legalmente a ignorare le risoluzioni delle Nazioni Unite. Di conseguenza approvò prestiti da $10 milioni al Portogallo e $20 milioni al Sud Africa dopo l’approvazione della risoluzione delle Nazioni Unite”.

A volte la preferenza della Banca Mondiale per la tirannia era netta: all’inizio degli anni ’70 interruppe i prestiti al governo Allende democraticamente eletto in Cile, ma poco dopo iniziò a prestare enormi quantità di denaro alla Romania di Ceausescu, uno dei peggiori stati di polizia del mondo. Questo è anche un esempio di come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, contrariamente a quanto si crede comunemente, non hanno concesso prestiti seguendo le linee ideologiche della Guerra Fredda: per ogni cliente di destra da Augusto Pinochet a Ugarte o Jorge Rafael Videla, c’era un Josip Broz di sinistra, Tito o Julius Nyerere.

Nel 1979, osserva Danaher, 15 dei governi più repressivi del mondo avrebbero ricevuto un terzo di tutti i prestiti bancari. Ciò anche dopo che il Congresso degli Stati Uniti e l’amministrazione Carter avevano interrotto gli aiuti a quattro di questi 15 Paesi – Argentina, Cile, Uruguay ed Etiopia – per “flagranti violazioni dei diritti umani”. Solo pochi anni dopo, in El Salvador, l’FMI concesse un prestito da $43 milioni alla dittatura militare, pochi mesi dopo che le sue forze avevano commesso il più grande massacro nell’America Latina durante la Guerra Fredda, annientando il villaggio di El Mozote.

Nel 1994 vennero pubblicati diversi libri sulla Banca Mondiale e sul Fondo Monetario Internazionale come retrospettive di 50 anni delle istituzioni di Bretton Woods. Perpetuating Poverty di Ian Vàsquez e Doug Bandow era uno di questi studi ed è particolarmente prezioso in quanto fornisce un’analisi libertaria dei fatti. La maggior parte degli studi critici sulla Banca Mondiale e sul Fondo Monetario Internazionale provengono dalla sinistra: ma Vásquez e Bandow del Cato Institute hanno riscontrato molti degli stessi problemi.

“Il Fondo Monetario Internazionale appoggia qualsiasi governo”, scrivono, “per quanto venale e brutale […]. La Cina doveva al Fondo Monetario Internazionale $600 milioni alla fine del 1989; nel gennaio 1990, appena pochi mesi dopo che il sangue si era asciugato in piazza Tiananmen a Pechino, l’FMI tenne un seminario sulla politica monetaria in città”.

Vásquez e Bandow menzionano altri clienti storici che vanno dalla Birmania militare, al Cile di Pinochet, al Laos, al Nicaragua sotto Anastasio Somoza Debayle e ai sandinisti, alla Siria e al Vietnam.

“L’FMI”, scrivono, “è raro che abbia mai incontrato una dittatura che non gli piacesse”.

Vásquez e Bandow descrivono in dettaglio il rapporto della Banca Mondiale con il regime marxista-leninista di Mengistu Haile Mariam in Etiopia, al quale forniva fino al 16% del bilancio annuale mentre aveva uno dei peggiori record di diritti umani al mondo. Il credito della Banca Mondiale arrivò proprio mentre le forze di Mengistu stavano “trasportando le persone nei campi di concentramento e nelle fattorie collettive”. Sottolineano anche come la Banca Mondiale abbia dato $16 milioni al regime sudanese mentre scacciava 750.000 rifugiati da Khartoum nel deserto, e come abbia dato centinaia di milioni di dollari all’Iran – una brutale dittatura teocratica – e al Mozambico, le cui forze di sicurezza erano famigerate per torture, stupri ed esecuzioni sommarie.

Nel suo libro del 2011, Defeating Dictators, il celebre economista ghanese George Ayittey ha dettagliato un lungo elenco di “autocrati che ricevono aiuti”: Paul Biya, Idriss Déby, Lansana Conté, Paul Kagame, Yoweri Museveni, Hun Sen, Islam Karimov, Nursultan Nazarbayev e Emomali Rahmon. Ha sottolineato che il Fondo Monetario Internazionale ha distribuito $75 miliardi solo a questi nove tiranni.

Nel 2014 è stata pubblicata una relazione dal Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi nella quale si sosteneva che il governo etiope aveva utilizzato parte di un prestito bancario da $2 miliardi per trasferire forzatamente 37.883 famiglie indigene Anuak. Si trattava del 60% dell’intera provincia di Gambella. I soldati avevano “picchiato, violentato e ucciso” gli Anuak che si rifiutavano di lasciare le proprie case. Le atrocità furono così gravi che il Sud Sudan concesse lo status di rifugiato agli Anuak che affluivano dalla vicina Etiopia. Una relazione di Human Rights Watch afferma che la terra rubata è stata poi “affittata dal governo agli investitori” e che il denaro della Banca Mondiale è stato “utilizzato per pagare gli stipendi dei funzionari governativi che hanno contribuito a eseguire gli sfratti”. La Banca Mondiale ha approvato nuovi finanziamenti per questo programma di “villaggizzazione” anche dopo che sono emerse accuse di violazioni di massa dei diritti umani.

Mobutu Sese Soko e Richard Nixon alla Casa Bianca nel 1973

Sarebbe un errore escludere da questo saggio lo Zaire di Mobutu Sese Soko. Beneficiario di miliardi di dollari in crediti bancari e fondi durante i suoi sanguinosi 32 anni di regno, Mobutu intascò il 30% degli aiuti e dell’assistenza estera e lasciò morire di fame il suo popolo. Rispettò 11 aggiustamenti strutturali dell’FMI: durante quello del 1984 furono licenziati 46.000 insegnanti della scuola pubblica e la moneta nazionale fu svalutata dell’80%. Mobutu definì questa austerità “una pillola amara che non abbiamo altra alternativa che ingoiare”, ma non vendette nessuna delle sue 51 Mercedes, nessuno dei suoi 11 castelli in Belgio e Francia, e nemmeno il suo Boeing 747 e il castello spagnolo del XVI secolo.

Il reddito pro capite diminuì in media del 2,2% in ogni anno del suo governo, lasciando oltre l’80% della popolazione in povertà assoluta. I bambini morivano prima dei cinque anni e la sindrome della pancia gonfia era dilagante. Si stima che Mobutu abbia rubato $5 miliardi e abbia supervisionato ad altri $12 miliardi in fughe di capitali, che insieme sarebbero stati più che sufficienti per cancellare il debito da $14 miliardi del Paese al momento della sua cacciata. Saccheggiò e terrorizzò il suo popolo, e non avrebbe potuto farlo senza la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale che continuarono a salvarlo anche se era chiaro che non avrebbe mai ripagato i suoi debiti.

Detto questo, il vero testimonial dell’affetto della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale per i dittatori è Ferdinand Marcos. Nel 1966, quando Marcos salì al potere, le Filippine erano il secondo Paese più prospero dell’Asia e il debito estero ammontava a circa $500 milioni. Quando Marcos fu rimosso nel 1986, il debito ammontava a $28,1 miliardi.

Come scrive Graham Hancock in Lords Of Poverty, la maggior parte di questi prestiti “erano stati accesi per pagare stravaganti progetti di sviluppo che, sebbene irrilevanti per i poveri, avevano assecondato l’enorme ego del capo dello stato […] un’indagine ha stabilito al di là di ogni dubbio che aveva personalmente espropriato e inviato dalle Filippine più di $10 miliardi, gran parte dei quali era scomparso per sempre nei suoi conti bancari svizzeri”.

“$100 milioni”, scrive Hancock, “furono pagati per la collezione d’arte di Imelda Marcos […] i suoi gusti erano eclettici e includevano sei vecchi maestri acquistati dalla Knodeler Gallery di New York per $5 milioni, una tela di Francis Bacon fornita dalla Marlborough Gallery a Londra e un Michelangelo, “Madonna col Bambino”, acquistato da Mario Bellini a Firenze per $3,5 milioni”.

“Durante l’ultimo decennio del regime di Marcos, mentre quei tesori d’arte venivano appesi sulle mura di attici lussuosi a Manhattan e Parigi, le Filippine avevano standard nutrizionali più bassi di qualsiasi altra nazione asiatica, ad eccezione della Cambogia devastata dalla guerra”.

Per contenere i disordini, Hancock scrive che Marcos vietò gli scioperi e “l’organizzazione sindacale fu bandita in tutte le industrie chiave e nel settore agricolo. Migliaia di filippini furono imprigionati per essersi opposti alla dittatura e molti furono torturati e uccisi. Nel frattempo il Paese era rimasto costantemente elencato tra i principali destinatari dell’assistenza allo sviluppo sia degli Stati Uniti che della Banca Mondiale”.

Dopo aver cacciato Marcos, il popolo filippino dovette comunque pagare una somma annuale compresa tra il 40% e il 50% dell’intero valore delle sue esportazioni “solo per coprire gli interessi sui debiti esteri contratti da Marcos”.

Si potrebbe pensare che dopo aver spodestato Marcos, il popolo filippino non avrebbe dovuto pagare il debito contratto per suo conto senza consultarlo, ma non è così che funzionano le cose. Nella teoria questo concetto è definito “debito odioso” ed è stato inventato dagli Stati Uniti nel 1898 quando ripudiarono il debito di Cuba dopo che le forze spagnole furono cacciate dall’isola.

I leader americani stabilirono che i debiti “contratti per soggiogare un popolo o per colonizzarlo” non erano legittimi, ma la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale non hanno mai seguito questo precedente durante i loro 75 anni di attività. Per ironia della sorte, l’FMI ha un articolo sul suo sito web in cui suggerisce che Somoza, Marcos, il Sudafrica dell’apartheid, “Baby Doc” di Haiti e Sani Abacha della Nigeria hanno tutti preso in prestito miliardi in modo illegittimo e che quel debito dovrebbe essere cancellato, ma questo suo stesso suggerimento non ha avuto seguito.

Tecnicamente e moralmente parlando, una grande percentuale del debito del Terzo Mondo dovrebbe essere considerata “odiosa” e non più dovuta nel caso in cui il dittatore venisse cacciato. Dopotutto, nella maggior parte dei casi, i cittadini che restituiscono i prestiti non hanno eletto il loro leader e non hanno scelto di accendere prestiti.

Nel luglio 1987 il leader rivoluzionario Thomas Sankara tenne un discorso all’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) in Etiopia, dove si rifiutò di pagare il debito coloniale del Burkina Faso e incoraggiò altre nazioni africane ad unirsi a lui.

“Non possiamo pagare”, disse, “perché non siamo responsabili di questo debito”.

Sankara boicottò l’FMI e rifiutò l’aggiustamento strutturale. Tre mesi dopo il suo discorso all’OUA fu assassinato da Blaise Compaoré, il quale avrebbe poi instaurato il proprio regime militare di 27 anni che avrebbe ricevuto quattro prestiti per aggiustamenti strutturali dall’FMI e decine di prestiti da parte della Banca Mondiale per vari progetti infrastrutturali e agricoli. Dopo la morte di Sankara, pochi capi di stato furono disposti a prendere posizione per ripudiare i propri debiti.

Il dittatore burchinese, Blaise Compaoré, e l’amministratore delegato dell’FMI, Dominique Strauss-Kahn. Compaoré prese il potere dopo aver assassinato Thomas Sankara (che cercò di rifiutare il debito occidentale) e continuò a prendere in prestito miliardi dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale

Una grande eccezione è stata l’Iraq: dopo l’invasione statunitense e la cacciata di Saddam Hussein nel 2003, le autorità americane sono riuscite a far sì che parte del debito contratto da Hussein fosse considerato “odioso” e condonato. Ma questo è stato un caso unico: i miliardi di persone che hanno sofferto sotto i colonialisti o i dittatori, e da allora sono state costrette a pagare i propri debiti più gli interessi, non hanno ottenuto questo trattamento speciale.

Negli ultimi anni il Fondo Monetario Internazionale ha agito addirittura come forza controrivoluzionaria contro i movimenti democratici. Negli anni ’90 fu ampiamente criticato sia dalla sinistra che dalla destra per aver contribuito a destabilizzare l’ex-Unione Sovietica mentre precipitava nel caos economico e si congelava nella dittatura di Vladimir Putin. Nel 2011, con l’emergere delle proteste della Primavera Araba in tutto il Medio Oriente, è stato formato il Partenariato di Deauville con i Paesi arabi in transizione, riunitisi a Parigi.

Attraverso questo meccanismo la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno concesso grosse offerte di prestiti a Yemen, Tunisia, Egitto, Marocco e Giordania – “Paesi arabi in transizione” – in cambio di aggiustamenti strutturali. Di conseguenza il debito estero della Tunisia è salito alle stelle, innescando due nuovi prestiti da parte dell’FMI, la prima volta sin dal 1988. Le misure di austerità abbinate a questi prestiti hanno costretto la svalutazione del dinaro tunisino, cosa che ha fatto lievitare i prezzi. Sono scoppiate proteste a livello nazionale mentre il governo ha continuato a seguire il programma del Fondo Monetario Internazionale: congelamento dei salari, nuove tasse e “pensioni anticipate” nel settore pubblico.

La ventinovenne manifestante Warda Atig ha riassunto così la situazione: “Finché la Tunisia continuerà a tenere fede a questi accordi con il Fondo Monetario Internazionale, continueremo la nostra lotta”. “Crediamo che il Fondo Monetario Internazionale e gli interessi dei cittadini siano in contraddizione. La fuga dalla sottomissione all’FMI, che ha messo in ginocchio la Tunisia e strangolato l’economia, è un prerequisito per avere un qualsiasi cambiamento reale”.

VII. CREARE DIPENDENZA AGRICOLA

“L’idea che i Paesi in via di sviluppo debbano nutrirsi da soli è un anacronismo di un’epoca passata. Potrebbero garantire meglio la loro sicurezza alimentare facendo affidamento sui prodotti agricoli statunitensi, che nella maggior parte dei casi sono disponibili a costi inferiori”

~ Ex-segretario all’Agricoltura degli Stati Uniti, John Block

Come risultato della linea di politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, in tutta l’America Latina, Africa, Medio Oriente e Asia meridionale e orientale, i Paesi che un tempo coltivavano il proprio cibo ora lo importano dai Paesi ricchi. Coltivare il proprio cibo è importante, in retrospettiva, perché nel sistema finanziario successivo al 1944 i prezzi delle materie prime non sono espressi nella valuta fiat locale, ma in dollari.

Prendiamo in considerazione il prezzo del grano, il quale ha oscillato tra i $200 e i $300 tra il 1996 e il 2006. Da allora è salito alle stelle, raggiungendo un picco di quasi $1.100 nel 2021. Se il vostro Paese coltivasse il proprio grano, potrebbe resistere alla tempesta. Se il vostro paese dovesse importare grano, la vostra popolazione rischierebbe di morire di fame. Questo è uno dei motivi per cui Paesi come Pakistan, Sri Lanka, Egitto, Ghana e Bangladesh si rivolgono attualmente al Fondo Monetario Internazionale per prestiti di emergenza.

A livello storico laddove la Banca Mondiale concedeva prestiti, erano per lo più per l’agricoltura “moderna”, su larga scala, monocoltura e per l’estrazione di risorse; non per lo sviluppo dell’industria locale, della produzione, o dell’agricoltura di consumo. I mutuatari sono stati incoraggiati a concentrarsi sulle esportazioni di materie prime (petrolio, minerali, caffè, cacao, olio di palma, tè, gomma, cotone, ecc.) e poi spinti a importare prodotti finiti, prodotti alimentari e ingredienti per l’agricoltura moderna come fertilizzanti, pesticidi, trattori e macchine per l’irrigazione. Il risultato è che società come quella del Marocco finiscono per importare grano e olio di soia invece di prosperare con il cuscus e l’olio d’oliva autoctoni. I guadagni vengono generalmente utilizzati non per avvantaggiare gli agricoltori, ma per onorare il debito estero, acquistare armi, importare beni di lusso, riempire conti bancari svizzeri e reprimere il dissenso.

Prendiamo in considerazione alcuni dei Paesi più poveri del mondo. Nel 2020 le esportazioni del Niger erano costituite per il 75% da uranio; quelle del Mali per il 72% da oro; quelle dello Zambia per il 70% da rame; quelle del Burundi per il 69% da caffè; quelle del Malawi per il 55% da tabacco; quelle del Togo per il 50% da cotone e così via. A volte, nei decenni passati, queste singole esportazioni hanno sostenuto praticamente tutti i guadagni in valuta forte di questi Paesi. Inutile dire che non si tratta di uno stato di cose naturale. Tali elementi non vengono estratti o prodotti per il consumo locale, ma per gli impianti nucleari francesi, l’elettronica cinese, i supermercati tedeschi, i produttori di sigarette britannici e le aziende di abbigliamento americane. In altre parole, l’energia della forza lavoro di queste nazioni è stata progettata per nutrire e potenziare altre civiltà, invece di nutrire e far progredire la propria.

La ricercatrice Alicia Koren ha scritto sul tema dell’impatto agricolo da parte della linea di politica della Banca Mondiale in Costa Rica, dove “l’aggiustamento strutturale del Paese richiedeva di guadagnare più valuta forte per ripagare il debito estero, costringendo gli agricoltori che tradizionalmente coltivavano fagioli, riso e mais per il consumo interno a piantare esportazioni agricole non tradizionali come piante ornamentali, fiori, meloni, fragole e peperoni rossi […] le industrie che esportavano i loro prodotti potevano beneficiare di esenzioni doganali e fiscali non disponibili per i produttori nazionali”.

“Nel frattempo”, ha scritto la Koren, “gli accordi di aggiustamento strutturale hanno rimosso il sostegno alla produzione interna […] mentre il Nord del mondo faceva pressione sulle nazioni del Sud affinché eliminassero i sussidi e le “barriere al commercio”, gli stessi governi del Nord pompavano miliardi di dollari nei propri settori agricoli, rendendo impossibile per i coltivatori di cereali del Sud di competere con una tale industria agricola altamente sovvenzionata”.

La Koren ha estrapolato la sua analisi sul Costa Rica per mettere in evidenza un punto più ampio: “Gli accordi di aggiustamento strutturale spostano i sussidi pubblici dalle forniture di base, consumate principalmente dalle classi povere e medie, ai raccolti per esportazioni di lusso e prodotti per gli stranieri benestanti”. I Paesi del Terzo Mondo non erano visti come enti politici, ma come aziende che avevano bisogno di aumentare le entrate e diminuire le spese.

La testimonianza di un ex-funzionario giamaicano è particolarmente significativa: “Abbiamo detto al team della Banca Mondiale che gli agricoltori difficilmente potevano permettersi il credito e che tassi più alti li avrebbero messi fuori mercato. La Banca Mondiale ci ha risposto che questo significa che il mercato vi sta dicendo che l’agricoltura non è la strada da percorrere per la Giamaica”.

“La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale”, ha detto il funzionario summenzionato, “non devono preoccuparsi del fallimento degli agricoltori e delle aziende locali, o dei salari da fame o dello sconvolgimento sociale che ne deriverebbe. Presumono semplicemente che sia nostro compito mantenere le nostre forze di sicurezza nazionali abbastanza forti da reprimere qualsiasi rivolta”.

I governi in via di sviluppo sono bloccati: di fronte a un debito insormontabile, l’unico fattore che realmente controllano in termini di aumento delle entrate è la riduzione dei salari. Se lo fanno, devono fornire sussidi alimentari di base, altrimenti saranno rovesciati. E così il debito cresce.

Anche quando i Paesi in via di sviluppo cercano di produrre il proprio cibo, vengono esclusi da un mercato commerciale globale pianificato centralmente. Ad esempio, si potrebbe pensare che la manodopera a basso costo in un luogo come l’Africa occidentale lo renderebbe un esportatore di arachidi migliore rispetto agli Stati Uniti. Ma poiché i Paesi del Nord del mondo pagano ogni giorno circa $1 miliardo in sussidi alle loro industrie agricole, i Paesi del Sud spesso faticano a essere competitivi. Quel che è peggio è che 50 o 60 Paesi vengono spesso indirizzati a concentrarsi sulle stesse colture, schiacciandosi a vicenda nel mercato mondiale. Gomma, olio di palma, caffè, tè e cotone sono i preferiti della Banca Mondiale, poiché le masse povere non possono mangiarli.

È vero che la Rivoluzione Verde ha creato più cibo per il pianeta, soprattutto in Cina e nell’Asia orientale, ma nonostante i progressi nella tecnologia agricola gran parte di questi nuovi rendimenti finiscono nelle esportazioni, e vaste aree del mondo rimangono cronicamente malnutrite e dipendenti. Ad oggi, ad esempio, le nazioni africane importano circa l’85% del loro cibo; pagano più di $40 miliardi all’anno – una cifra che si stima raggiungerà i $110 miliardi all’anno entro il 2025 – per acquistare da altre parti del mondo ciò che potrebbero coltivare da soli. La linea di politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale ha contribuito a trasformare un continente dalle incredibili ricchezze agricole in uno dipendente dal mondo esterno per nutrire la propria popolazione.

Riflettendo sui risultati di questa linea di politica basata sulla dipendenza, Hancock critica la convinzione diffusa secondo cui le popolazioni del Terzo Mondo siano “fondamentalmente indifese”.

“Le vittime di crisi, disastri e catastrofi senza nome”, scrive, soffrono della percezione che “non possono fare nulla a meno che noi, i ricchi e i potenti, non interveniamo per salvarli da sé stessi”. Ma come evidenziato dal fatto che la nostra “assistenza” li ha solo resi più dipendenti da noi, Hancock confuta l’idea che “solo noi possiamo salvarli” definendola come “condiscendente e profondamente fallace”.

Lungi dall’assumere il ruolo del buon samaritano, il Fondo Monetario Internazionale non segue nemmeno l’eterna tradizione umana, fondata più di 4.000 anni fa da Hammurabi nell’antica Babilonia, di condonare gli interessi dopo i disastri naturali. Nel 1985 un devastante terremoto colpì Città del Messico, uccidendo più di 5.000 persone e causando danni per $5 miliardi. Il personale del Fondo Monetario Internazionale – che afferma di essere salvatore, aiutando a porre fine alla povertà e a salvare i Paesi in crisi – arrivò pochi giorni dopo, chiedendo di essere rimborsato.

VIII. NON SI PUÒ MANGIARE IL COTONE

“Lo sviluppo preferisce i raccolti che non possono essere mangiati in modo da poter raccogliere i prestiti”

~ Cheryl Payer

L’esperienza personale di Farida Nabourema, sostenitrice della democrazia togolese, corrisponde tragicamente al quadro generale delineato finora.

Per come la mette lei, dopo il boom petrolifero degli anni ’70, i prestiti furono versati a nazioni in via di sviluppo come il Togo, i cui governanti irresponsabili non ci pensarono due volte su come ripagarlo. Gran parte del denaro finì in giganteschi progetti infrastrutturali che non avevano alcun beneficio per la maggior parte delle persone. Molto fu sottratto e speso in proprietà faraoniche. La maggior parte di questi Paesi, dice, erano governati da stati a partito unico o famiglie. Una volta che i tassi d’interesse iniziavano a salire, questi governi non potevano più ripagare i propri debiti: l’FMI iniziava quindi a “prendere il controllo” imponendo misure di austerità.

“Erano stati nuovi e molto fragili”, afferma Nabourema in un’intervista per questo articolo. “Avevano bisogno d’investire fortemente nelle infrastrutture sociali, proprio come gli stati europei potevano fare dopo la seconda guerra mondiale. Un giorno, poi, siamo passati dall’assistenza sanitaria e dall’istruzione gratuite, a situazioni in cui era diventato troppo costoso per la persona media ottenere anche le medicine di base”.

Indipendentemente da ciò che si pensa della medicina e dell’istruzione sovvenzionate dallo stato, la loro eliminazione da un giorno all’altro è stata traumatica per i Paesi poveri. I funzionari della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, ovviamente, hanno le proprie soluzioni sanitarie private per le loro visite e le loro scuole private per i propri figli.

A causa dei tagli forzati alla spesa pubblica, dice Nabourema, gli ospedali pubblici del Togo sono ancora oggi in “completo decadimento”. A differenza degli ospedali pubblici nelle capitali delle ex-potenze coloniali, come Londra e Parigi, a Lomé, la capitale del Togo, le cose vanno così male che persino l’acqua dev’essere prescritta.

“C’è stata anche”, ha detto Nabourema, “una privatizzazione sconsiderata delle nostre aziende pubbliche”. Mi ha spiegato che suo padre lavorava presso l’agenzia siderurgica del Togo. Durante la privatizzazione, l’azienda venne venduta ad attori stranieri per meno della metà del prezzo per cui lo stato l’aveva costruita.

“Praticamente si trattava di una svendita”.

Nabourema afferma che un sistema di libero mercato e riforme liberali funzionano bene quando tutti i partecipanti si trovano in condizioni di parità, ma questo non è il caso del Togo che è costretto a giocare secondo regole diverse. Non importa quanto si apra, non può cambiare le rigide linee di politica degli Stati Uniti e dell’Europa che sovvenzionano aggressivamente le proprie industrie e la propria agricoltura. Nabourema menziona come un afflusso sovvenzionato di vestiti usati a basso costo provenienti dall’America, ad esempio, abbia rovinato l’industria tessile del Togo.

“Questi vestiti provenienti dall’Occidente”, mi ha detto, “hanno messo fuori gioco gli imprenditori e hanno inquinato le nostre spiagge”.

L’aspetto più orribile è che i contadini – che costituivano il 60% della popolazione del Togo negli anni ’80 – hanno visto i loro mezzi di sussistenza sconvolti. La dittatura aveva bisogno di valuta forte per pagare i propri debiti e poteva farlo solo rivolgendosi alle esportazioni, così iniziò una massiccia campagna per vendere i raccolti. Con l’aiuto della Banca Mondiale, il regime ha investito nel cotone, tanto che oggi domina il 50% delle esportazioni del Paese, distruggendo la sicurezza alimentare nazionale.

Negli anni formativi di Paesi come il Togo, la Banca Mondiale era il “maggior finanziatore per l’agricoltura”. La sua strategia per combattere la povertà era la modernizzazione agricola: “Massicci trasferimenti di capitali, sotto forma di fertilizzanti, pesticidi, attrezzature per arare la terra e costosi consulenti stranieri”.

È stato il padre di Nabourema a rivelarle come i fertilizzanti e i trattori importati venivano dirottati dagli agricoltori che coltivavano cibo di consumo, agli agricoltori che coltivavano colture commerciali come cotone, caffè, cacao e anacardi. Se qualcuno coltivava mais, sorgo o miglio – gli alimenti di base della popolazione – non aveva accesso a finanziamenti o macchinari.

“Non si può mangiare il cotone”, ci ricorda Nabourema.

Nel corso del tempo l’élite politica in Paesi come il Togo e il Benin (il cui dittatore era proprio un magnate del cotone) è diventata l’acquirente di tutti i raccolti di tutte le aziende agricole. Avrebbero avuto per le mani il monopolio sugli acquisti, dice Nabourema, e avrebbero comprato i raccolti a prezzi così bassi che i contadini guadagnavano a malapena qualcosa. L’intero sistema – chiamato “sotoco” in Togo – è basato sui finanziamenti forniti dalla Banca Mondiale.

Qualora gli agricoltori avessero protestato, mi ha detto, sarebbero stati picchiati o le loro fattorie sarebbero state ridotte in macerie. Avrebbero potuto coltivare cibo normale e nutrire le loro famiglie, come avevano fatto per generazioni, ma ora non possono nemmeno permettersi la terra: l’élite politica la sta acquistando a un ritmo serrato, spesso con mezzi illegali, facendone lievitare il prezzo.

Ad esempio, Nabourema spiega come il regime togolese potrebbe impossessarsi di 2.000 acri di terra: a differenza di una democrazia liberale (come quella francese, che ha costruito la propria civiltà sulle spalle di Paesi come il Togo), il sistema giudiziario è di proprietà dello stato, quindi non c’è modo di contrastarlo. Gli agricoltori, che un tempo erano sovrani, sono ora costretti a lavorare come braccianti sulla terra di qualcun altro per fornire cotone ai Paesi ricchi. L’ironia più tragica, dice Nabourema, è che il cotone viene coltivato in maggioranza nel nord del Togo, nella parte più povera del Paese.

“Ma quando vai lì”, dice, “vedi che non ha reso ricco nessuno”.

Le donne sopportano il peso maggiore dell’aggiustamento strutturale. La misoginia di questa linea di politica è “abbastanza chiara in Africa, dove le donne sono le principali coltivatrici e fornitrici di carburante, legname e acqua”, scrive Danaher. Eppure, come afferma una recente retrospettiva, “la Banca Mondiale preferisce incolparle di avere troppi figli piuttosto che riesaminare le proprie linee di politica”.

Come scrive la Payer, molti dei poveri del mondo sono tali “non perché siano stati lasciati indietro o ignorati dal progresso del loro Paese, ma perché sono vittime della modernizzazione. La maggior parte è stata espulsa dai terreni agricoli, o privata del tutto della terra, dalle élite e dall’agrobusiness locale o straniero. La loro indigenza non li ha “esclusi” dal processo di sviluppo; il processo di sviluppo è stato la causa della loro miseria”.

“Tuttavia la Banca Mondiale”, afferma la Payer, “è ancora determinata a trasformare le pratiche agricole dei piccoli agricoltori. Le sue dichiarazioni chiariscono che il vero obiettivo è l’integrazione delle terre contadine nel settore commerciale attraverso la produzione di un “surplus commerciabile” di raccolti da reddito”.

La Payer ha sottolineato come, negli anni ’70 e ’80, molti piccoli cospiratori soddisfacevano ancora la maggior parte del proprio fabbisogno alimentare e non erano “dipendenti dal mercato per la quasi totalità del loro sostentamento, come lo erano le persone “moderne”. Queste ultime, tuttavia, erano il bersaglio della Banca Mondiale, che le trasformava in produttori di surplus e “spesso imponeva questa trasformazione con metodi autoritari”.

In una testimonianza davanti al Congresso degli Stati Uniti negli anni ’90, George Ayittey osservò che “se l’Africa fosse in grado di nutrirsi da sola, potrebbe risparmiare quasi $15 miliardi che invece spreca in importazioni di cibo. Questa cifra può essere paragonata ai $17 miliardi ricevuti dall’Africa in aiuti esteri nel 1997”.

In altre parole, se l’Africa producesse il proprio cibo, non avrebbe bisogno di aiuti stranieri. Ma se ciò dovesse accadere, i Paesi poveri non comprerebbero miliardi di dollari di cibo all’anno dai Paesi ricchi, le cui economie di conseguenza si contrarrebbero. Quindi l’Occidente resiste fortemente a qualsiasi cambiamento.

IX. LA CRICCA DELLO SVILUPPO

Scusate, amici, devo prendere il mio jet

Vado a unirmi alla crica dello sviluppo

Le mie valigie sono pronte e ho fatto tutte le mie iniezioni

Ho assegni e pillole per i viaggi!

La cricca dello sviluppo è luminosa e nobile

I nostri pensieri sono profondi e la nostra visione mondiale

Anche se ci muoviamo con le classi migliori

I nostri pensieri sono sempre rivolti alle masse

Negli hotel Sheraton in nazioni sparse

Malediciamo le multinazionali

Sembra facile protestare contro l’ingiustizia

In quei focolai ribollenti di riposo sociale.

Discutiamo di malnutrizione rispetto alle bistecche

E organizziamo discorsi sulla fame durante le pause caffè.

Che si tratti delle inondazioni asiatiche o della siccità africana

Affrontiamo ogni questione a bocca aperta.

E così inizia The Development Set, una poesia del 1976 di Ross Coggins che colpisce al cuore la natura paternalistica e irresponsabile della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale.

La Banca Mondiale paga stipendi elevati ed esentasse, con benefici molto generosi. Il personale dell’FMI è pagato ancora meglio e tradizionalmente volava in prima classe o in business class (a seconda della distanza), mai in economy. Soggiornavano in hotel a cinque stelle e avevano persino il vantaggio di partecipare ad aggiornamenti sui Concorde. I loro salari, a differenza di quelli percepiti dalle persone che vivono in condizioni di aggiustamento strutturale, non avevano un tetto massimo e crescevano sempre più rapidamente del tasso d’inflazione.

Fino alla metà degli anni ’90, agli inservienti che pulivano la sede della Banca Mondiale a Washington – per lo più immigrati fuggiti da Paesi che essa e il Fondo Monetario Internazionale avevano “aggiustato” – non era nemmeno permesso di essere sindacalizzati. Al contrario, lo stipendio esentasse di Christine Lagarde come capo dell’FMI era di $467.940, più un’indennità aggiuntiva di $83.760. Durante il suo mandato, dal 2011 al 2019, ha supervisionato una serie di aggiustamenti strutturali nei Paesi poveri, dove le tasse sui più vulnerabili venivano quasi sempre aumentate.

Graham Hancock scrive che le indennità di licenziamento presso la Banca Mondiale negli anni ’80 “erano in media di un quarto di milione di dollari a persona”. Quando 700 dirigenti persero il lavoro nel 1987, il denaro speso per i loro paracadute d’oro – $175 milioni – sarebbe stato sufficiente “per pagare l’istruzione elementare completa per 63.000 bambini provenienti da famiglie povere dell’America Latina o dell’Africa”.

Secondo James Wolfensohn, ex-direttore della Banca Mondiale, dal 1995 al 2005 sono stati oltre 63.000 i progetti della Banca nei Paesi in via di sviluppo: i costi degli “studi di fattibilità” e di viaggio e soggiorno per gli esperti dei soli Paesi industrializzati hanno assorbito ben il 25% del totale degli aiuti.

Cinquant’anni dopo la creazione della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internzionale “il 90% dei $12 miliardi all’anno destinati all’assistenza tecnica veniva ancora speso in competenze straniere”. Quell’anno, nel 1994, George Ayittey notò che 80.000 consulenti della Banca Mondiale lavoravano solo sull’Africa, ma che “meno dello 0,01%” erano africani.

Hancock scrive che “la Banca Mondiale, che investe denaro in più progetti in un maggior numero di Paesi in via di sviluppo rispetto a qualsiasi altra istituzione, afferma che “cerca di soddisfare i bisogni delle persone più povere”; ma in nessuna fase di ciò che chiama “ciclo del progetto” impiega il tempo per chiedere ai poveri stessi come percepiscono i loro bisogni […] i poveri sono completamente esclusi dal processo decisionale – quasi come se non esistessero”.

La linea di politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale viene forgiata negli incontri in lussuosi hotel tra persone che non dovranno mai vivere un giorno in povertà nella loro vita. Come sostiene Joseph Stiglitz nella sua critica a entrambe suddette istituzioni, “la guerra moderna ad alta tecnologia è progettata per rimuovere il contatto fisico: sganciare bombe da 50.000 piedi garantisce che non si “senta” ciò che si fa. La gestione economica moderna è simile: dal proprio hotel di lusso si possono imporre insensibilmente linee di politica alle quali ci si penserebbe due volte se si conoscessero le persone di cui si sta distruggendo la vita”.

I leader della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale sono talvolta le stesse persone che sganciano le bombe. Ad esempio, Robert McNamara – probabilmente la persona più importante nella storia della Banca Mondiale, famoso per averne ampliato i prestiti e fatto sprofondare i Paesi poveri in una spirale di debito evitabile – fu prima amministratore delegato della società Ford, prima di diventare segretario alla Difesa degli Stati Uniti, dove inviò 500.000 soldati americani a combattere in Vietnam. Dopo aver lasciato la Banca Mondiale, entrò direttamente nel consiglio di amministrazione della Royal Dutch Shell. Un più recente capo della Banca Mondiale è stato Paul Wolfowitz, uno dei principali artefici della guerra in Iraq.

La cricca dello sviluppo prende le sue decisioni lontano dalle popolazioni che finiscono per risentirne l’impatto, e nascondono i dettagli dietro montagne di scartoffie, rapporti e gergo eufemistico. Come il vecchio British Colonial Office, tale cricca si nasconde “come una seppia in una nuvola d’inchiostro”.

Le storie prolifiche ed estenuanti scritte dalla cricca sono agiografie: l’esperienza umana è aerografata. Un buon esempio è uno studio intitolato Balance of Payments Adjustment, 1945 to 1986: The FMI Experience. Ho sperimentato la noiosa esperienza di leggere l’intero tomo. I benefici del colonialismo sono completamente ignorati. Le storie personali e le esperienze umane che hanno sofferto a causa della linea di politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale vengono eluse. Le difficoltà sono sepolte sotto innumerevoli grafici e statistiche. Questi studi, che dominano il discorso pubblico, sembrano avere come priorità quella di evitare di offendere il personale della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale. Certo, il tono lascia intendere che forse sono stati commessi degli errori qua e là, ma le intenzioni sono buone; sono qui per aiutare.

In un esempio tratto dallo studio sopra citato, l’aggiustamento strutturale in Argentina nel 1959 e nel 1960 è descritto come segue: “Mentre le misure avevano inizialmente ridotto il tenore di vita di un vasto settore della popolazione argentina, in un tempo relativamente breve queste misure avevano portato a una bilancia commerciale e una bilancia dei pagamenti favorevoli, un aumento delle riserve monetarie, una forte riduzione del tasso di aumento del costo della vita, un tasso di cambio stabile e un aumento degli investimenti nazionali ed esteri”.

In parole povere: certo, c’è stato un enorme impoverimento dell’intera popolazione, ma ehi, abbiamo ottenuto un bilancio migliore, più risparmi per il regime e più accordi con le multinazionali.

Gli eufemismi non finiscono qui. I Paesi poveri vengono costantemente descritti come “casi di prova”. Il lessico, il gergo e il linguaggio dell’economia dello sviluppo sono progettati per nascondere ciò che sta realmente accadendo, per mascherare la crudele realtà con termini, processi e teorie ed evitare di enunciare il meccanismo sottostante: i Paesi ricchi sottraggono risorse ai Paesi poveri e godono per il doppio standard.

L’apoteosi del rapporto della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale con il mondo in via di sviluppo è il loro incontro annuale a Washington, D.C.: un grande festival sulla povertà nel Paese più ricco della Terra.

“Su montagne di montagne di cibo ben preparato”, scrive Hancock, “si realizzano enormi volumi di affari; nel frattempo sconcertanti manifestazioni di dominio e ostentazione si fondono armoniosamente con una retorica vuota e priva di significato sulla difficile situazione dei poveri”.

“I 10.000 uomini e donne presenti”, scrive, “è improbabile che raggiungano i [loro] nobili obiettivi; quando non sbadigliano o dormono durante le sessioni plenarie, si ritrovano a godersi una serie di cocktail party, pranzi, tè pomeridiani, cene e spuntini di mezzanotte abbastanza sontuosi da saziare il buongustaio più esigente. Il costo totale dei 700 eventi organizzati per i delegati durante una sola settimana [nel 1989] è stato stimato a $10 milioni: una somma di denaro che, forse, avrebbe potuto meglio “soddisfare i bisogni dei poveri” se fosse stata spesa in in qualche altro modo”.

Questo accadeva 33 anni fa: si può solo immaginare il costo di queste feste in dollari di oggi.

Nel suo libro, The Fiat Standard, Saifedean Ammous dà un nome diverso alla cricca dello sviluppo: l’industria della miseria. Vale la pena citare la sua descrizione: “Quando la pianificazione della Banca Mondiale inevitabilmente fallisce e i debiti non possono essere ripagati, l’FMI interviene per scuotere i Paesi inadempienti, saccheggiare le loro risorse e prendere il controllo delle istituzioni politiche. È una relazione simbiotica tra le due organizzazioni parassitarie che genera lavoro, reddito e viaggi per i lavoratori dell’industria della miseria, a scapito dei Paesi poveri che devono pagare tutto in prestiti”.

“Più si legge a riguardo”, scrive Ammous, “più ci si rende conto di quanto sia stato catastrofico consegnare a questa classe di burocrati, potenti ma irresponsabili, una linea infinita di credito fiat e scaricarla sui poveri del mondo. Questo accordo consente agli stranieri non eletti, senza nulla in gioco, di controllare e pianificare centralmente le economie di intere nazioni […]. Le popolazioni indigene vengono allontanate dalle loro terre, le imprese private vengono chiuse per proteggere i diritti di monopolio, le tasse vengono aumentate e le proprietà vengono confiscate […] accordi esentasse vengono forniti alle società internazionali sotto gli auspici delle istituzioni finanziarie internazionali, mentre i produttori locali pagano tasse sempre più alte e soffrono l’inflazione per far fronte all’incontinenza fiscale dei loro governi”.

“Come parte degli accordi di riduzione del debito firmati con l’industria della miseria”, continua, “ai governi è stato chiesto di svendere alcuni dei loro beni più preziosi. Ciò include imprese governative, ma anche risorse nazionali e intere porzioni di territorio. L’FMI di solito li metteva all’asta alle multinazionali e negoziava con i governi affinché fossero esentati dalle tasse e dalle leggi locali. Dopo decenni di saturazione del mondo con credito facile, le IFI hanno trascorso gli anni ’80 agendo come pronti contro termine. Hanno attraversato le macerie dei Paesi del terzo mondo devastati dalle loro linee di politica e hanno venduto tutto ciò che aveva valore alle multinazionali, proteggendole dalla legge nei cumuli di rottami in cui operavano. Questa ridistribuzione inversa alla Robin Hood è stata l’inevitabile conseguenza delle dinamiche create quando queste organizzazioni sono state dotate di denaro facile”.

“Assicurando che il mondo intero rimanga su uno standard fiat”, conclude Ammous, “l’FMI garantisce che gli Stati Uniti possano continuare a portare avanti la propria politica monetaria inflazionistica ed esportare la propria inflazione a livello mondiale. Solo quando si comprende il grande furto al centro del sistema monetario globale, si può comprendere la difficile situazione dei Paesi in via di sviluppo”.

X. ELEFANTI BIANCHI

“Ciò che l’Africa deve fare è crescere, uscire dal debito”

~ George Ayittey

Verso la metà degli anni ’70 era chiaro ai politici occidentali, e in particolare al presidente della Banca Mondiale, Robert McNamara, che l’unico modo in cui i Paesi poveri sarebbero stati in grado di ripagare il proprio debito era aumentarlo.

L’FMI ha sempre abbinato i suoi prestiti agli aggiustamenti strutturali, ma per i primi decenni la Banca Mondiale avrebbe concesso prestiti specifici per progetti o settori senza condizioni aggiuntive. La situazione cambiò durante il mandato di McNamara, quando i prestiti per gli aggiustamenti strutturali meno specifici divennero popolari e poi addirittura dominanti nel corso degli anni ’80.

Il motivo era semplice: i dipendenti della Banca Mondiale avevano molti più soldi da prestare ed era più facile donare grandi somme se il denaro non era vincolato a progetti specifici. Come scrive la Payer, “il doppio dei dollari per settimana di lavoro del personale” poteva essere erogato attraverso prestiti per gli aggiustamenti strutturali.

I mutuatari, scrive Hancock, non potrebbero essere più felici: “Ministri delle finanze corrotti e presidenti dittatoriali dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina non vedevano l’ora di vedersi assegnato un qualche aggiustamento strutturale. Per queste persone non è mai stato così facile ottenere denaro: senza progetti complicati da amministrare e senza conti in disordine da risolvere, le risate dei venali, dei crudeli e dei brutti si sentivano fin dentro alla Banca Mondiale. Per loro l’aggiustamento strutturale era come un sogno diventato realtà. A loro personalmente non veniva richiesto alcun sacrificio. Tutto quello che dovevano fare – sorprendente ma vero – era fregare i poveri”.

Al di là dei prestiti per gli aggiustamenti strutturali, l’altro modo per spendere grandi quantità di denaro era finanziare progetti individuali. Questi sarebbero diventati noti come “elefanti bianchi” e le loro carcasse punteggiano ancora i deserti, le montagne e le foreste del mondo in via di sviluppo. Questi colossi erano noti per la loro devastazione umana e ambientale.

Un buon esempio potrebbero essere le dighe Inga da miliardi di dollari, costruite nello Zaire nel 1972, i cui architetti finanziati dalla Banca Mondiale hanno elettrificato la provincia ricca di minerali del Katanga senza installare alcun trasformatore lungo il percorso e quindi aiutare il vasto numero di abitanti dei villaggi che ancora usavano le lampade a olio. O l’oleodotto Ciad-Camerun negli anni ’90: questo progetto da $3,7 miliardi, finanziato dalla Banca Mondiale, è stato costruito interamente per sottrarre risorse e arricchire la dittatura di Deby e i suoi collaboratori stranieri, senza alcun beneficio per la popolazione. Tra il 1979 e il 1983 i progetti idroelettrici finanziati dalla Banca Mondiale “hanno portato al reinsediamento involontario di almeno 400.000-450.000 persone in quattro continenti”.

Hancock descrive in dettaglio molti di questi elefanti bianchi in Lords Of Poverty. Un esempio è il Singrauli Power and Coal Mining Complex nello stato indiano dell’Uttar Pradesh, che ha ricevuto quasi un miliardo di dollari in finanziamenti dalla Banca Mondiale.

I giacimenti di carbone di Singrauli

“Qui”, scrive Hancock, “a causa dello ‘sviluppo’, 300.000 poveri rurali furono soggetti a frequenti trasferimenti forzati quando furono aperte nuove miniere e centrali elettriche […] la terra fu completamente distrutta e somigliava a scene uscite dai gironi inferiori dell’Inferno dantesco. Enormi quantità di polvere e inquinamento dell’aria e dell’acqua di ogni tipo immaginabile hanno creato enormi problemi di salute pubblica. La tubercolosi era dilagante, le riserve di acqua potabile erano distrutte e la malaria resistente alla clorochina affliggeva l’area. Una volta che i villaggi e i borghi prosperi furono sostituiti da tuguri e baracche ai margini di enormi progetti infrastrutturali […] alcune persone vivevano all’interno delle miniere a cielo aperto. Oltre 70.000 contadini precedentemente autosufficienti – privati di ogni possibile fonte di reddito – non hanno avuto altra scelta che accettare l’umiliazione del lavoro intermittente a Singrauli per salari di circa 70 centesimi al giorno: al di sotto del livello di sopravvivenza anche in India”.

In Guatemala, Hancock descrive una gigantesca diga idroelettrica chiamata Chixoy, costruita con il sostegno della Banca Mondiale negli altopiani Maya.

“Il budget originariamente previsto era di $340 milioni”, scrive, “i costi di costruzione erano saliti a $1 miliardo quando la diga fu aperta nel 1985 […] il denaro fu prestato al governo guatemalteco da un consorzio [guidato] dalla Banca Mondiale […]. Il governo militare del generale Romero Lucas Arica, al potere durante gran parte della fase di costruzione e che firmò il contratto con la Banca Mondiale, è stato riconosciuto dagli analisti politici come l’amministrazione più corrotta della storia di un Paese centroamericano in una regione afflitta da regimi venali e disonesti […] i membri della giunta hanno intascato circa $350 milioni del miliardo di dollari previsto per Chixoy”.

E infine in Brasile, Hancock descrive dettagliatamente uno dei progetti più dannosi della Banca Mondiale, un “programma di colonizzazione e reinsediamento” noto come Polonoroeste. Nel 1985 la Banca Mondiale aveva stanziato $434,3 milioni per l’iniziativa, che finì per trasformare “i poveri in rifugiati nella loro stessa terra”.

Il progetto “ha convinto centinaia di migliaia di persone bisognose a emigrare dalle province centrali e meridionali del Brasile e a trasferirsi come agricoltori nel bacino amazzonico” per generare raccolti redditizi. “Il denaro della Banca Mondiale”, scrive Hancock, “ha pagato per la rapida pavimentazione dell’autostrada BR-364 che corre nel cuore della provincia nord-occidentale di Rondonia. Tutti i coloni percorrevano questa strada diretti alle fattorie che hanno dovuto abbandonare e bruciare […]. Già deforestata al 4% nel 1982, Rondonia era deforestata all’11% nel 1985. Le indagini spaziali della NASA hanno mostrato che l’area di deforestazione raddoppiava all’incirca ogni due anni”.

Come risultato del progetto, nel 1988 “le foreste tropicali che coprivano un’area più grande del Belgio sono state bruciate dai coloni”. Hancock nota inoltre che “si stima che più di 200.000 coloni abbiano contratto un ceppo di malaria particolarmente virulento, endemico nel nord-ovest, nei confronti del quale non avevano alcuna resistenza”.

Tali progetti grotteschi furono il risultato della massiccia crescita degli istituti di credito, del distacco dei creditori dai luoghi reali a cui prestavano denaro e della gestione da parte di autocrati locali irresponsabili che intascavano miliardi. Erano il risultato di linee di politica che cercavano di prestare quanto più denaro possibile ai Paesi del Terzo Mondo per mantenere attivo lo schema Ponzi del debito e per mantenere in movimento il flusso di risorse dal Sud del mondo al Nord. L’esempio più triste di tutti lo troviamo in Indonesia.

XI. UNA PANDORA NELLA VITA REALE: LO SFRUTTAMENTO DELLA PAPUA OCCIDENTALE

“Se vuoi un accordo equo, sei sul pianeta sbagliato”

~ Jake Sully

L’isola della Nuova Guinea è ricca di risorse oltre ogni immaginazione. Contiene, tanto per cominciare: la terza più grande distesa di foresta pluviale tropicale del mondo, dopo l’Amazzonia e il Congo; la più grande miniera d’oro e di rame del mondo a Grasberg, all’ombra del picco di 4.800 metri del “Seven Summit” di Puncak Jaya; e, al largo, il Triangolo dei Coralli, un mare tropicale noto per la sua diversità di barriera corallina “impareggiabile”.

Eppure la popolazione dell’isola, soprattutto quella che vive nella metà occidentale, grande quanto la California e sotto il controllo indonesiano, è tra le più povere del mondo. Il colonialismo delle risorse è stato a lungo una maledizione per i residenti di questo territorio, noto come Papua occidentale. Sia che il saccheggio sia stato commesso dagli olandesi o, nei decenni più recenti, dal governo indonesiano, gli imperialisti hanno trovato un generoso sostegno da parte della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale.

Questo saggio ha già menzionato come uno dei primi prestiti della Banca Mondiale sia stato agli olandesi, utilizzato per cercare di sostenere il suo impero coloniale in Indonesia. Nel 1962 l’Olanda imperiale fu finalmente sconfitta e cedette il controllo sulla Papua occidentale al governo di Sukarno quando l’Indonesia divenne indipendente. Tuttavia i papuani (noti anche come Irianesi) volevano la propria libertà.

Nel corso di quel decennio – quando l’FMI accreditò al governo indonesiano più di $100 milioni – i papuani furono epurati dalle posizioni di leadership. Nel 1969, in un evento che avrebbe fatto arrossire l’Oceania di George Orwell, Giakarta tenne l’“Atto di libera scelta”, un sondaggio in cui 1.025 persone furono radunate e costrette a votare davanti a soldati armati. I risultati per l’adesione dell’Indonesia furono unanimi e il voto venne ratificato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Dopodiché la gente del posto non ha più avuto voce in capitolo su quali progetti di “sviluppo” si sarebbero portati avanti. Petrolio, rame e legname furono tutti raccolti e rimossi dall’isola nei decenni successivi, senza alcun coinvolgimento da parte dei papuani, se non come lavori forzati.

Le miniere, le autostrade e i porti della Papua occidentale non sono stati costruiti pensando al benessere della popolazione, ma piuttosto per saccheggiare l’isola nel modo più efficiente possibile. Come la Payer ebbe modo di osservare già nel 1974, l’FMI contribuì a trasformare le vaste risorse naturali dell’Indonesia in “mutui per un futuro indefinito e sovvenzionare un’oppressiva dittatura militare in modo da pagare le importazioni che sostenevano lo stile di vita sontuoso dei generali di Giakarta”.

Un articolo del 1959 sulla scoperta dell’oro nella zona rappresentò l’inizio della storia di quella che sarebbe poi diventata la miniera di Grasberg, il più grande produttore mondiale di rame e oro a basso costo. Nel 1972 la Freeport con sede a Phoenix firmò un accordo con il dittatore indonesiano Suharto per estrarre oro e rame dalla Papua occidentale, senza alcun consenso da parte della popolazione indigena. Fino al 2017 la Freeport controllava il 90% delle quote del progetto, di cui il 10% nelle mani del governo indonesiano e lo 0% nelle mani delle tribù Amungme e Kamoro che abitano effettivamente l’area.

La miniera di Grasberg

Quando i tesori di Grasberg saranno completamente esauriti dalla società Freeport, il progetto avrà generato circa sei miliardi di tonnellate di rifiuti: più del doppio della roccia scavata per il Canale di Panama.

Da allora gli ecosistemi a valle della miniera sono stati devastati e privati della vita poiché più di un miliardo di tonnellate di rifiuti sono stati scaricati “direttamente in un fiume nella giungla, in quello che era stato uno degli ultimi paesaggi incontaminati del mondo”. I rapporti satellitari mostrano la devastazione provocata dallo scarico in corso di oltre 200.000 residui tossici al giorno in un’area che contiene il Parco Nazionale Lorentz, un sito patrimonio dell’umanità. La Freeport rimane il più grande contribuente straniero in Indonesia e il più grande datore di lavoro nella Papua occidentale: prevede di restarci fino al 2040, quando l’oro finirà.

Come scrive candidamente la Banca Mondiale nel suo stesso rapporto sulla regione, “gli interessi commerciali internazionali vogliono migliori infrastrutture per estrarre ed esportare risorse minerarie e forestali non rinnovabili”.

Il programma di gran lunga più scioccante finanziato dalla Banca Mondiale nella Papua occidentale è stato la “trasmigrazione”, un eufemismo per indicare il colonialismo. Per più di un secolo le potenze che controllavano Giava (dove risiede la maggior parte della popolazione indonesiana) sognavano di spostare grandi porzioni di giavanesi verso le isole più lontane dell’arcipelago. Non solo per ampliare la loro influenza, ma anche per “unificare” ideologicamente il territorio. In un discorso del 1985 il Ministro della Trasmigrazione disse che “attraverso la trasmigrazione, cercheremo di […] integrare tutti i gruppi etnici in un’unica nazione, la nazione indonesiana […]. I diversi gruppi etnici alla lunga scompariranno a causa dell’integrazione […] ci sarà solo un tipo di persone”.

Questi sforzi per reinsediare i giavanesi – noti come “Transmigrasi” – iniziarono durante il periodo coloniale, ma negli anni ’70 e ’80 la Banca Mondiale ha iniziato a finanziare queste attività in modo aggressivo. Ha stanziato centinaia di milioni di dollari alla dittatura di Suharto per consentirle di “trasmigrare” milioni di persone in luoghi come Timor Est e Papua Occidentale in quello che è stato “il più grande esercizio di reinsediamento umano mai realizzato al mondo”. Nel 1986 la Banca Mondiale aveva stanziato $600 milioni direttamente per sostenere la trasmigrazione, il che comportò “una combinazione mozzafiato di violazioni dei diritti umani e distruzione ambientale”.

Prendiamo in considerazione la storia della palma Sago, uno dei principali alimenti tradizionali dei papuani. Un albero da solo è in grado di fornire cibo a una famiglia per un periodo compreso tra sei e dodici mesi, ma il governo indonesiano, incoraggiato dalla Banca Mondiale, è arrivato e ha detto no, non funziona: bisogna mangiare riso. E così i giardini di Sago furono abbattuti per coltivare riso da esportare; la gente del posto fu costretta a comprare il riso al mercato, il che li rese più dipendenti da Giakarta.

Ogni resistenza veniva accolta con brutalità. Soprattutto sotto Suharto – che imprigionò fino a 100.000 prigionieri politici – ma anche oggi, nel 2022, la Papua occidentale è uno stato di polizia quasi senza rivali: i giornalisti stranieri sono praticamente banditi, la libertà di parola non esiste, l’esercito opera senza alcuna responsabilità. Organizzazioni non governative come Tapol documentano una legione di violazioni dei diritti umani che vanno dalla sorveglianza di massa dei dispositivi personali, alle restrizioni su quando e per quale motivo le persone possono lasciare le proprie case e persino regole su come i papuani possono portare i capelli.

Tra il 1979 e il 1984 circa 59.700 migranti furono portati nella Papua occidentale, con il sostegno “su larga scala” della Banca Mondiale. Più di 20.000 papuani sono fuggiti dalle violenze nella vicina Papua Nuova Guinea. I rifugiati hanno riferito ai media internazionali che “i loro villaggi sono stati bombardati, i loro insediamenti bruciati, le donne violentate, il bestiame ucciso e un gran numero di persone uccise indiscriminatamente mentre altre sono state imprigionate e torturate”.

Un progetto successivo, sostenuto da un prestito bancario da $160 milioni nel 1985, fu chiamato “Transmigration V”: il settimo progetto finanziato dalla Banca Mondiale a sostegno dello spostamento dei coloni, mirava a finanziare il trasferimento di 300.000 famiglie tra il 1986 e il 1992. La Papua all’epoca descrisse gli indigeni come “viventi nell’era della pietra” e chiese che altri due milioni di migranti giavanesi fossero inviati nelle isole in modo che “le popolazioni locali arretrate potessero sposarsi con i nuovi arrivati dando così vita a una nuova popolazione senza capelli ricci”.

La versione originale e finale dell’accordo di prestito Transmigration V è trapelata a Survival International: la versione originale faceva “ampi riferimenti alle linee di politica della Banca Mondiale sui popoli indigeni e fornisce un elenco di misure necessarie per rispettarle”, ma la versione finale non faceva “nessun riferimento alle linee di politica della Banca Mondiale”.

Genocidio culturale nella Papua occidentale

Transmigration V ebbe problemi di budget e fu interrotto, ma alla fine vennero trasferite 161.600 famiglie, al costo di 14.146 mesi di personale della Banca Mondiale. Quest’ultima stava chiaramente finanziando un genocidio culturale: oggi gli etnici papuani non costituiscono più del 30% della popolazione del territorio. L’ingegneria sociale non era l’unico obiettivo del prelievo di denaro dalla Banca Mondiale: si stima che il 17% dei fondi per i progetti di trasmigrazione siano stati rubati da funzionari governativi.

Quindici anni dopo, l’11 dicembre 2001, la Banca Mondiale ha approvato un prestito da $200 milioni per “migliorare le condizioni stradali” nella Papua occidentale e in altre parti dell’Indonesia orientale. Il progetto, noto come EIRTP, mirava a “migliorare le condizioni delle arterie stradali nazionali e di altre arterie strategiche al fine di ridurre i costi di trasporto e fornire un accesso più affidabile tra i centri provinciali, le aree di sviluppo regionale e di produzione e altre strutture di trasporto chiave. La riduzione dei costi del trasporto stradale”, ha affermato la Banca Mondiale, “contribuirà ad abbassare i prezzi dei fattori produttivi, ad aumentare i prezzi di produzione e ad aumentare la competitività dei prodotti locali provenienti dalle aree colpite”. In altre parole: la Banca Mondiale ha contribuito a estrarre risorse nel modo più efficiente possibile.

La storia della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale in Indonesia è così scandalosa che sembra provenire da un’altra epoca, secoli fa. Tra il 2003 e il 2008 la Banca Mondiale ha finanziato lo sviluppo dell’olio di palma in Indonesia per un importo di quasi $200 milioni e ha assunto società private che si presume abbiano “usato il fuoco per abbattere le foreste primarie e impossessarsi di terre appartenenti alle popolazioni indigene senza un giusto processo”.

Oggi il governo indonesiano rimane in difficoltà per il prestito dell’EIRTP. Negli ultimi cinque anni la Banca Mondiale ha raccolto $70 milioni in pagamenti di interessi dal governo e dai contribuenti indonesiani, tutto per i suoi sforzi volti ad accelerare l’estrazione di risorse da isole come la Papua occidentale.

XII. LO SCHEMA PONZI PIÙ GRANDE DEL MONDO

“I Paesi non vanno in bancarotta”

~ Walter Wriston, ex-presidente di Citibank

Si potrebbe considerare la bancarotta una parte importante e persino essenziale del capitalismo, ma l’FMI esiste fondamentalmente per impedire al libero mercato di funzionare come farebbe normalmente: salva i Paesi che normalmente andrebbero in bancarotta, costringendoli invece a indebitarsi ulteriormente.

Il Fondo Monetario Internazionale rende possibile l’impossibile: i Paesi piccoli e poveri detengono così tanto debito che non potrebbero mai ripagarlo tutto. Questi salvataggi non fanno altro che corrompere gli incentivi del sistema finanziario mondiale. In un libero mercato, ci sarebbero gravi conseguenze per i prestiti rischiosi: la banca creditrice potrebbe perdere i suoi soldi.

L’aumento esponenziale del debito del Terzo Mondo

Quando gli Stati Uniti, l’Europa, o il Giappone effettuavano depositi presso la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, era come acquistare un’assicurazione sulla loro capacità di estrarre ricchezza dai Paesi in via di sviluppo. Le loro banche private e le loro multinazionali sono protette da piani di salvataggio e, oltre a ciò, guadagnano interessi consistenti e costanti (pagati dai Paesi poveri) su ciò che è ampiamente percepito come assistenza umanitaria.

Come scrive David Graeber in Debt, quando le banche “prestarono denaro ai dittatori in Bolivia e Gabon alla fine degli anni ’70, erano prestiti del tutto irresponsabili con la piena consapevolezza che, una volta saputo che lo avevano fatto, politici e i burocrati si sarebbero dati da fare per assicurarsi che sarebbero stati rimborsati, non importa quante vite dovessero essere devastate e distrutte per farlo”.

Kevin Danaher descrive la tensione che cominciò ad emergere negli anni ’60: “I mutuatari iniziarono a ripagare annualmente alla Banca Mondiale più di quanto questa erogava in nuovi prestiti. Nel 1963, 1964 e 1969 l’India trasferì alla Banca Mondiale più denaro di quanto essa ne elargisse”. Tecnicamente l’India stava ripagando i suoi debiti più gli interessi, ma la leadership della Banca Mondiale vide una crisi.

“Per risolvere il problema”, continua Danaher, l’allora presidente Robert McNamara aumentò i prestiti “a un ritmo fenomenale, da $953 milioni nel 1968 a $12,4 miliardi nel 1981”. Anche il numero dei programmi di prestito dell’FMI “è più che raddoppiato” dal 1976 al 1983, soprattutto ai Paesi poveri. Le assicurazioni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale hanno portato i centri monetari del mondo, così come centinaia di banche regionali e locali negli Stati Uniti e in Europa – “la maggior parte delle quali con poca o nessuna storia precedente di prestiti esteri” – a intraprendere una corsa ai prestiti senza precedenti.

La bolla del debito del Terzo Mondo scoppiò definitivamente nel 1982, quando il Messico annunciò il default. Secondo la storia ufficiale dell’FMI: “I banchieri privati prevedevano la temuta possibilità di un diffuso ripudio dei debiti, come era avvenuto negli anni ’30: a quel tempo il debito dovuto dai Paesi debitori a quelli industriali era principalmente sotto forma di titoli emessi negli Stati Uniti dai primi e sotto forma di obbligazioni vendute all’estero; negli anni ’80 il debito era quasi interamente sotto forma di prestiti a breve e medio termine concessi dalle banche commerciali dei Paesi industriali. Le autorità monetarie dei Paesi industrializzati si sono subito rese conto dell’urgenza del problema posto al sistema bancario mondiale”.

In altre parole: la minaccia che le banche occidentali potessero avere buchi nei loro bilanci era il vero pericolo, non che milioni di persone morissero a causa dei programmi di austerità nei Paesi poveri. Nel suo libro A Fate Worse Than Debt, Susan George illustra come le prime nove banche statunitensi avessero tutte investito più del 100% del loro patrimonio netto in “prestiti a Messico, Brasile, Argentina e Venezuela”. La crisi fu tuttavia evitata poiché l’FMI aiutò il flusso di credito verso i Paesi del Terzo Mondo, anche se fossero dovuti andare in bancarotta.

“In parole povere”, secondo un’analisi tecnica del Fondo Monetario Internazionale, i suoi programmi “forniscono salvataggi per i prestatori privati nei mercati emergenti, consentendo così ai creditori internazionali di beneficiare dei prestiti esteri senza assumersi tutti i rischi connessi: le banche raccolgono profitti significativi se i mutuatari rimborsano i loro debiti ed evitano perdite in caso di crisi finanziaria”

I cittadini dell’America Latina soffrirono per l’aggiustamento strutturale, ma tra il 1982 e il 1985 la George scrive che “nonostante la sovraesposizione verso l’America Latina, i dividendi dichiarati dalle nove grandi banche aumentarono di oltre un terzo durante quello stesso periodo”. I profitti aumentarono dell’84% presso Chase Manhattan e del 66% presso Banker’s Trust, e il valore delle azioni salì dell’86% presso Chase e dell’83% presso Citicorp.

“L’austerità non è il termine per descrivere le esperienze a partire dal 1982, né delle élite del Terzo Mondo, né delle banche internazionali: i partiti che accesero i prestiti in primo luogo”.

La “generosità” dell’Occidente consentì a leader irresponsabili di far sprofondare le loro nazioni in un debito più profondo che mai. Il sistema era, come scrive la Payer nel suo libro Lent And Lost, uno schema Ponzi: i nuovi prestiti andavano direttamente a pagare i vecchi. Il sistema doveva crescere fino a raggiungere a collasso del vuoto.

“Mantenendo attivi i finanziamenti”, ha affermato un direttore generale dell’FMI e riportato dalla Payer, i prestiti per l’aggiustamento strutturale “hanno consentito scambi che altrimenti non sarebbero stati possibili”.

Dato che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale impediranno anche ai governi più corrotti e dispendiosi di andare in bancarotta, le banche private adattarono il loro comportamento di conseguenza. Un buon esempio potrebbe essere l’Argentina che ha ricevuto 22 prestiti dall’FMI sin dal 1959, tentando addirittura il default nel 2001. Si potrebbe pensare che i creditori avrebbero smesso di concedere prestiti a un mutuatario così dissoluto, ma, solo quattro anni fa, l’Argentina ha ricevuto il più grande prestito dall’FMI di tutti i tempi per l’incredibile cifra di $57,1 miliardi.

La Payer ha riassunto il suo libro The Debt Trap affermando che la morale del suo lavoro era “sia semplice che antiquata: le nazioni, come gli individui, non possono spendere più di quanto guadagnano senza indebitarsi, e un pesante fardello di debiti sbarra la strada all’azione autonoma”.

Ma il sistema pende pesantemente per i creditori: i profitti sono monopolizzati, mentre le perdite sono socializzate.

La Payer se ne rese conto già 50 anni fa, nel 1974, e concluse quindi che “nel lungo periodo è più realistico ritirarsi da un sistema di sfruttamento e subire la dislocazione del riaggiustamento piuttosto che chiedere sollievo agli sfruttatori”.

XIII. FAI QUELLO CHE DICO, NON QUELLO CHE FACCIO

“Il nostro stile di vita non è oggetto di negoziazione”

~ George H.W. Bush

In un libero mercato le linee di politica che impongono la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale ai Paesi poveri potrebbero avere senso. Dopo tutto, il primato del socialismo e della nazionalizzazione su larga scala dell’industria rappresenterebbe un disastro. Il problema è che il mondo non è un mercato libero e i doppi standard sono ovunque.

I sussidi – ad esempio il riso gratuito in Sri Lanka o il carburante scontato in Nigeria – sono stati aboliti dall’FMI, ma i Paesi creditori come il Regno Unito e gli Stati Uniti estendono sussidi sanitari e agricoli finanziati dallo stato alle proprie popolazioni.

Si può adottare una visione libertaria o marxista e arrivare alla stessa conclusione: un doppio standard che arricchisce alcuni Paesi a scapito di altri, di cui la maggior parte dei cittadini dei Paesi ricchi sono beatamente inconsapevoli.

Per aiutare a uscire dalle macerie della Seconda guerra mondiale, nei primi decenni dopo Bretton Woods i creditori dell’FMI hanno fatto affidamento sulla pianificazione centrale e su una linea di politica anti-libero mercato: ad esempio, restrizioni sulle importazioni, limiti ai deflussi di capitali, limiti ai cambi esteri e sussidi alle colture. Queste misure hanno protetto le economie industriali quando erano più vulnerabili.

Negli Stati Uniti, ad esempio, l’Interest Equalization Act fu approvato da John F. Kennedy per impedire agli americani di acquistare titoli esteri e concentrarli invece sugli investimenti nazionali. Questa fu una delle tante misure volte a rafforzare i controlli sui capitali, ma la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno storicamente impedito ai Paesi poveri di utilizzare le stesse tattiche per difendersi.

Scrive la Payer: “L’FMI non ha mai svolto un ruolo decisivo nell’aggiustamento dei tassi di cambio e delle pratiche commerciali tra le nazioni ricche e sviluppate […]. Sono le nazioni più deboli che sono soggette alla piena forza dei principi dell’FMI […] la disuguaglianza dei rapporti di potere significava che il Fondo Monetario Internazionale non poteva fare nulla contro le “distorsioni” del mercato (come la protezione commerciale) praticate dai Paesi ricchi”.

Vásquez e Bandow del Cato Institute sono giunti a una conclusione simile, sottolineando che “la maggior parte delle nazioni industrializzate ha mantenuto un atteggiamento condiscendente nei confronti delle nazioni sottosviluppate, chiudendo ipocritamente le loro esportazioni”.

All’inizio degli anni ’90, mentre gli Stati Uniti sottolineavano l’importanza del libero scambio, “hanno eretto una cortina di ferro contro le esportazioni [dell’Europa orientale], compresi i prodotti tessili, l’acciaio e i prodotti agricoli”. Sono stati presi di mira Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bosnia, Croazia, Slovenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Russia, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina e Uzbekistan. Gli Stati Uniti hanno impedito alle nazioni dell’Europa orientale di vendere “una sola libbra di burro, latte in polvere o gelato in America” e sia l’amministrazione Bush che quella Clinton hanno imposto rigide restrizioni alle importazioni di prodotti chimici e farmaceutici da quella regione.

Si stima che il protezionismo dei Paesi industrializzati “riduca il reddito nazionale dei Paesi in via di sviluppo di circa il doppio di quanto fornito dall’assistenza allo sviluppo”. In altre parole, se le nazioni occidentali si limitassero ad aprire le loro economie, non dovrebbero fornire alcun aiuto allo sviluppo.

C’è una svolta sinistra in questo accordo: quando un Paese occidentale (cioè gli Stati Uniti) s’imbatte in una crisi inflazionistica – come quella odierna – ed è costretto a restringere la propria politica monetaria, in realtà acquisisce un maggiore controllo sui Paesi in via di sviluppo e sulle loro risorse, il cui debito in dollari diventa molto più difficile da ripagare e cadono sempre più nella trappola del debito e nelle condizionalità della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale.

Nel 2008, durante la Grande Crisi Finanziaria, le autorità americane ed europee hanno abbassato i tassi d’interesse e rifornito le banche di liquidità extra. Durante la crisi del debito del Terzo mondo e la crisi finanziaria asiatica, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale si rifiutarono di consentire questo tipo di comportamento; la raccomandazione alle economie afflitte fu quella d’inasprire la politica interna e d’indebitarsi di più dall’estero.

Nel settembre 2022 i titoli dei giornali affermavano che l’FMI era “preoccupato” per l’inflazione nel Regno Unito, poiché il suo mercato obbligazionario vacillava sull’orlo del collasso. Ennesimo esempio di ipocrisia, dato che l’FMI non sembrava affatto preoccupato per l’inflazione quando ha imposto la svalutazione monetaria a miliardi di persone per decenni. Le nazioni creditrici giocano secondo regole diverse.

Esempio eclatante di “Fai quello che dico, non quello che faccio”, l’FMI detiene ancora ben 90,5 milioni di once – o 2.814 tonnellate – d’oro. La maggior parte di questa somma fu accumulata negli anni ’40, quando i membri furono costretti a pagare il 25% delle loro quote originarie in oro. Infatti, fino agli anni ’70, i membri “normalmente pagavano in oro tutti gli interessi dovuti all’FMI”.

Quando Richard Nixon pose fine formalmente al gold standard nel 1971, l’FMI non vendette le sue riserve auree. Ciononostante i tentativi da parte di qualsiasi Paese membro di ancorare la propria valuta all’oro sono vietati.

XIV. COLONIALISMO VERDE

“Se si spegnesse l’elettricità per qualche mese in qualsiasi società occidentale sviluppata, 500 anni di presunto progresso filosofico sui diritti umani e sull’individualismo evaporerebbero rapidamente”

~ Murtaza Hussein

Negli ultimi decenni è emerso un nuovo doppio standard: il colonialismo verde. Questo è ciò che l’imprenditrice senegalese, Magatte Wade, definisce l’ipocrisia dell’Occidente in un’intervista per questo saggio.

La Wade ci ricorda che i Paesi industrializzati hanno sviluppato le loro civiltà utilizzando gli idrocarburi (in gran parte rubati o acquistati a buon mercato da Paesi poveri o colonie), ma oggi la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale cercano di promuovere linee di politica che proibiscono al mondo in via di sviluppo di fare lo stesso.

Laddove gli Stati Uniti e il Regno Unito sono stati in grado di utilizzare il carbone e il petrolio del Terzo Mondo, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale vogliono che i Paesi africani utilizzino l’energia solare ed eolica prodotta e finanziata dall’Occidente.

Questa ipocrisia è stata messa in mostra lo scorso anno in Egitto, dove i leader mondiali si sono riuniti alla COP 27 (la Conferenza sui cambiamenti climatici a Sharm el-Sheikh) per discutere su come ridurre il consumo di energia. L’evento è stato organizzato nel continente africano intenzionalmente. I leader occidentali – che attualmente si affrettano a importare più combustibili fossili dopo che il loro accesso agli idrocarburi russi è stato ridotto – sono volati su jet privati ad alto consumo di combustibile fossile per chiedere ai Paesi poveri di ridurre la loro impronta di anidride carbonica. Nella tradizione tipica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, le cerimonie venivano ospitate dal dittatore militare residente. Durante i festeggiamenti, infatti, Alaa Abd Al Fattah, un eminente attivista egiziano per i diritti umani, languiva in carcere in sciopero della fame.

Il primo ministro britannico Rishi Sunak utilizza jet privati mentre promuove un’agenda a favore del clima

“Proprio come ai tempi in cui eravamo colonizzati e i colonizzatori stabilivano le regole su come avrebbero funzionato le nostre società”, mi ha detto la Wade, “questa agenda verde è un nuovo modo per governarci. Ci viene detto quale dovrebbe essere il nostro rapporto con l’energia, che tipo di energia dovremmo usare e quando possiamo usarla. Il petrolio è nel nostro suolo, fa parte della nostra sovranità: ma adesso dicono che non possiamo usarlo, anche dopo che l’hanno saccheggiato per tutti questi anni”.

La Wade sottolinea che non appena i Paesi importanti attraversano una crisi economica (visto che ora si preparano all’inverno), tornano subito a utilizzare combustibili fossili. Osserva che ai Paesi poveri non è consentito sviluppare l’energia nucleare e nota che quando in passato i leader del Terzo mondo cercarono di spingere in questa direzione, alcuni di loro – in particolare in Pakistan e Brasile – furono assassinati.

La Wade afferma che il lavoro della sua vita è costruire prosperità in Africa. È nata in Senegal e si è trasferita in Germania all’età di sette anni. Ricorda ancora il suo primo giorno in Europa: era abituata al fatto che una doccia durasse 30 minuti visto che bisognava accendere la stufa a carbone, far bollire l’acqua, metterci dentro l’acqua fredda e trascinarla poi nella zona della doccia; in Germania tutto ciò che doveva fare era girare una manopola.

“Rimasi scioccata. Questa domanda ha definito il resto della mia vita: come mai loro hanno tutto questo ma noi no?”.

La Wade imparò nel tempo che le ragioni del successo occidentale includevano lo stato di diritto, diritti di proprietà chiari e trasferibili e valute stabili; ma anche un accesso energetico affidabile.

“Non possiamo avere limitazioni al nostro consumo di energia imposte da altri”, mi ha detto la Wade. Eppure la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale continuano a esercitare pressioni sulla politica energetica dei Paesi poveri. L’anno scorso Haiti ha seguito le pressioni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale per porre fine ai sussidi per il carburante. “Il risultato”, ha scritto il giornalista Michael Schellenberger, “sono stati disordini, saccheggi e caos”.

“Nel 2018”, continua Schellenberger, “il governo haitiano ha accettato le richieste dell’FMI di tagliare i sussidi per il carburante come prerequisito per ricevere $96 milioni dalla Banca Mondiale, dall’Unione Europea e dalla Banca interamericana dello sviluppo, innescando proteste che hanno portato alle dimissioni del primo ministro”.

“In oltre 40 nazioni sin dal 2005”, scrive, “sono scoppiate rivolte dopo il taglio dei sussidi per il carburante o l’aumento in altro modo dei prezzi dell’energia”.

È il massimo dell’ipocrisia per l’Occidente raggiungere il successo basandosi su un forte consumo di energia e sui sussidi energetici, per poi cercare di limitare il tipo e la quantità di energia utilizzata dai Paesi poveri e quindi aumentare il prezzo che i loro cittadini pagano. Ciò equivale a uno schema malthusiano in linea con la convinzione ben documentata dell’ex-capo della Banca Mondiale, Robert McNamara, secondo cui la crescita della popolazione rappresentava una minaccia per l’umanità. La soluzione, ovviamente, è sempre stata quella di cercare di ridurre la popolazione dei Paesi poveri, non di quelli ricchi.

“Ci trattano come piccoli esperimenti”, dice la Wade, “dove l’Occidente dice: potremmo perdere alcune persone lungo la strada, ma vediamo se i Paesi poveri possono svilupparsi senza i tipi di energia che abbiamo usato”.

“Bene”, dice, “non siamo un esperimento”.

XV. IL COSTO UMANO PER GLI AGGIUSTAMENTI STRUTTURALI

“Per la Banca Mondiale, sviluppo significa crescita… ma… la crescita sfrenata è l’ideologia della cellula cancerosa”

~ Mohammed Yunus

L’impatto sociale dell’aggiustamento strutturale è immenso e non viene quasi mai menzionato nell’analisi tradizionale della linea di politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Sono stati condotti numerosi studi esaustivi sul loro impatto economico, ma molto pochi sul loro impatto sulla salute globale.

Ricercatori come Ayittey, Hancock e Payer forniscono alcuni esempi sconcertanti degli anni ’70 e ’80:

• Tra il 1977 e il 1985 il Perù ha intrapreso l’aggiustamento strutturale dell’FMI: il reddito medio pro capite dei peruviani scese del 20% e l’inflazione salì dal 30% al 160%. Nel 1985 la paga di un lavoratore valeva solo il 64% di quanto valeva nel 1979 e il 44% di quanto valeva nel 1973. La malnutrizione infantile aumentò dal 42% al 68% della popolazione.

• Nel 1984 e nel 1985 le Filippine sotto Marcos attuarono un’altra tornata di riforme strutturali dell’FMI: dopo un anno il PNL pro capite regredì ai livelli del 1975. I guadagni reali scesero del 46% tra i salariati urbani.

• Nello Sri Lanka il 30% più povero della popolazione subì un calo ininterrotto del consumo calorico dopo oltre un decennio di aggiustamenti strutturali.

• In Brasile il numero di cittadini che soffrivano di malnutrizione passò da 27 milioni (un terzo della popolazione) nel 1961 a 86 milioni (due terzi della popolazione) nel 1985, dopo 10 aggiustamenti strutturali.

• Tra il 1975 e il 1984, nella Bolivia guidata dal Fondo Monetario Internazionale, il numero di ore che il cittadino medio doveva lavorare per acquistare 1.000 calorie di pane, fagioli, mais, grano, zucchero, patate, latte, o quinoa aumentò in media di cinque volte.

• Dopo l’aggiustamento strutturale in Giamaica nel 1984, il potere d’acquisto nutrizionale di un dollaro giamaicano crollò in 14 mesi, passando da 2.232 calorie di farina a sole 1.443; dalle 1.649 calorie del riso alle 905; dalle 1.037 calorie del latte condensato alle 508; dalle 220 calorie del pollo alle 174.

• Come risultato dell’aggiustamento strutturale, i salari reali messicani calarono negli anni ’80 di oltre il 75%. Nel 1986 circa il 70% dei messicani a basso reddito aveva “praticamente smesso di mangiare riso, uova, frutta, verdura e latte (per non parlare di carne o pesce)” in un momento in cui il loro governo pagava $27 milioni al giorno – $18.750 al minuto. – nell’interesse dei suoi creditori. Negli anni ’90 “una famiglia di quattro persone con il salario minimo (che costituiva il 60% della forza lavoro occupata) poteva soddisfare solo il 25% dei suoi bisogni di base”.

Nell’Africa sub-sahariana il PNL pro capite “scese costantemente da $624 nel 1980 a $513 nel 1998 […] la produzione alimentare pro capite in Africa era di 105 nel 1980 ma di 92 nel 1997 […] e le importazioni alimentari aumentarono di un sorprendente 65% tra il 1988 e il 1997”.

Questi esempi, per quanto tragici, forniscono solo un quadro piccolo e frammentario dell’impatto deleterio che le linee di politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale hanno avuto sulla salute dei poveri del mondo.

In media, ogni anno dal 1980 al 1985 c’erano 47 Paesi del Terzo Mondo che perseguivano programmi di aggiustamento strutturale sponsorizzati dall’FMI, e 21 Paesi in via di sviluppo che richiedevano prestiti per aggiustamenti strutturali, o settoriali, da parte della Banca Mondiale. Durante lo stesso periodo il 75% di tutti i Paesi dell’America Latina e dell’Africa hanno registrato un calo del reddito pro capite e del benessere infantile.

Il declino del tenore di vita ha senso se si considera che le linee di politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale hanno scolpito le società affinché si concentrassero sulle esportazioni a scapito dei consumi, distruggendo al contempo la sicurezza alimentare e i servizi sanitari.

Durante l’aggiustamento strutturale dell’FMI i salari reali in Paesi come il Kenya scesero di oltre il 40%. Dopo i miliardi di credito erogati dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, la produzione alimentare pro capite in Africa scese di quasi il 20% tra il 1960 e il 1994. Nel frattempo la spesa sanitaria nei “Paesi programmati dall’FMI e dalla Banca Mondiale” calò del 50% durante gli anni ’80.

Quando la sicurezza alimentare e l’assistenza sanitaria crollano, le persone muoiono.

I documenti del 2011 e del 2013 hanno mostrato che i Paesi che hanno preso un prestito per l’aggiustamento strutturale avevano livelli di mortalità infantile più elevati rispetto a quelli che non lo avevano fatto. Un’analisi del 2017 è stata “praticamente unanime nel trovare un’associazione dannosa tra aggiustamento strutturale e risultati sulla salute infantile e materna”. Uno studio del 2020 ha esaminato i dati di 137 Paesi in via di sviluppo tra il 1980 e il 2014 e ha scoperto che “le riforme di aggiustamento strutturale riducono l’accesso al sistema sanitario e aumentano la mortalità neonatale”. Un documento del 2021 ha concluso che l’aggiustamento strutturale svolge “un ruolo significativo nel perpetuare la disabilità e la morte prevenibili”.

È impossibile fare un resoconto completo di quante donne, uomini e bambini sono stati uccisi a causa delle linee di politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale.

Davidson Budhoo, sostenitore della sicurezza alimentare, ha affermato che sei milioni di bambini sono morti ogni anno in Africa, Asia e America Latina tra il 1982 e il 1994 a causa degli aggiustamenti strutturali. Ciò metterebbe il bilancio delle vittime della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale allo stesso livello delle morti causate da Stalin e Mao.

È anche solo lontanamente possibile? Nessuno lo saprà mai, ma osservando i dati possiamo iniziare a farci un’idea.

Una ricerca dal Messico – un Paese tipico in termini di coinvolgimento costante da parte della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale – ha scoperto che per ogni diminuzione del 2% del PIL, il tasso di mortalità è aumentato dell’1%.

Consideriamo ora che, a seguito dell’aggiustamento strutturale, il PIL di decine di Paesi del Terzo Mondo tra gli anni ’60 e ’90 ha subito contrazioni a due cifre. Nonostante la massiccia crescita della popolazione, molte di queste economie sono rimaste stagnanti o hanno registrato una contrazione nel corso di periodi di 15-25 anni. Ciò significa che le linee di politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale hanno ucciso decine di milioni di persone.

Qualunque sia il bilancio finale delle vittime, ci sono due certezze: la prima è che si tratta di crimini contro l’umanità e la seconda che nessun funzionario della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale andrà mai in prigione. Non ci sarà mai alcuna responsabilità o giustizia.

L’inevitabile realtà è che milioni di persone sono morte troppo giovani affinché fosse prolungata e migliorata la vita di milioni di altre persone altrove. È ovviamente vero che gran parte del successo dell’Occidente è dovuto a valori illuministi come lo stato di diritto, la libertà di parola, la democrazia liberale e il rispetto interno dei diritti umani, ma la verità non detta è che gran parte di quel successo è anche il risultato del furto di risorse e tempo ai danni dei Paesi poveri.

La ricchezza e il lavoro rubati al Terzo Mondo rimarranno impuniti, ma rimangono visibili oggi, incrostati per sempre nell’architettura, nella cultura, nella scienza, nella tecnologia e nella qualità della vita del mondo sviluppato. La prossima volta che visiterete Londra, New York, Tokyo, Parigi, Amsterdam, o Berlino, il sottoscritto vi suggerisce di fare una passeggiata e fermarvi davanti a una vista particolarmente suggestiva, o panoramica, della città per riflettere su questi temi. Come dice il vecchio proverbio: “Dobbiamo attraversare l’oscurità per raggiungere la luce”.

XVI. MILLE MILIARDI DI DOLLARI: LA BANCA MONDIALE E IL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE NEL MONDO POST-COVID

“Siamo tutti sulla stessa barca”

~ Christine Lagarde, ex-direttore generale dell’FMI

La linea di politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale nei confronti dei Paesi in via di sviluppo non è cambiata molto negli ultimi decenni. Certo, ci sono state alcune modifiche superficiali, come l’iniziativa “Paesi poveri altamente indebitati” (HIPC), in base alla quale alcuni governi possono beneficiare della riduzione del debito, ma nonostante il nuovo linguaggio anche i Paesi più poveri tra i poveri hanno ancora bisogno di aggiustamenti strutturali. È stata da poco rinominata in “Strategia per la riduzione della povertà”.

Valgono ancora le stesse regole: in Guyana, ad esempio, “il governo ha deciso all’inizio del 2000 di aumentare gli stipendi dei dipendenti pubblici del 3,5%, dopo un calo del potere d’acquisto del 30% nei cinque anni precedenti”. L’FMI ha immediatamente minacciato di rimuovere la Guyana dalla lista dei Paesi HIPC. “Dopo alcuni mesi, il governo ha dovuto fare marcia indietro”.

La stessa devastazione su larga scala si verifica ancora adesso. In un rapporto del Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (ICIJ) del 2015, ad esempio, si stimava che 3,4 milioni di persone fossero state sfollate nel decennio precedente a causa di progetti finanziati dalla Banca Mondiale. Ai vecchi giochi contabili, intesi a esagerare il bene fatto dall’assistenzialismo, se ne aggiungono di nuovi.

Il governo degli Stati Uniti applica uno sconto del 92% al debito dei Paesi poveri altamente indebitati, eppure le autorità statunitensi includono il valore nominale della riduzione del debito nei loro numeri di “APS” (aiuto pubblico allo sviluppo). Significato: esagerano notevolmente il volume dei loro aiuti. Il Financial Times ha sostenuto che “gli aiuti non sono affatto aiuti” e che “la cancellazione del debito commerciale ufficiale non dovrebbe essere considerata un aiuto”.

Anche se è vero che negli ultimi anni ci sono state grandi trasformazioni all’interno della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, questi cambiamenti non sono avvenuti nel modo in cui le istituzioni cercano di modellare le economie dei Paesi debitori, ma piuttosto nel fatto che hanno concentrato i loro sforzi sulle nazioni più vicine al centro economico del mondo.

“Praticamente sotto ogni aspetto”, osserva uno studio dell’NBER, “i programmi dell’FMI post-2008 a diverse economie europee sono i più grandi nei suoi 70 anni di storia”.

I più grandi salvataggi dell’FMI della sua storia

“Gli impegni dell’FMI in percentuale del PIL mondiale”, spiega lo studio sopraccitato, “hanno raggiunto il massimo storico quando è iniziata la crisi del debito europeo”. L’Islanda ha avviato un programma dell’FMI nel 2008, seguita da Grecia, Irlanda e Portogallo.

Il piano di salvataggio della Grecia guidato ammontava all’incredibile cifra di $375 miliardi. Nel luglio 2015 “il malcontento popolare portò a un voto ‘No’ in un referendum sull’opportunità di accettare le condizioni di prestito dell’FMI, le quali includevano l’aumento delle tasse, la riduzione delle pensioni e di altre spese, e la privatizzazione delle industrie”.

Alla fine, però, la voce del popolo greco non fu ascoltata poiché “il governo ignorò i risultati e accettò i prestiti”.

Il Fondo Monetario Internazionale ha utilizzato in Grecia e in altri Paesi europei a basso reddito lo stesso metodo utilizzato per decenni in tutto il mondo in via di sviluppo: rompere le norme democratiche per fornire miliardi alle élite, con austerità per le masse.

Negli ultimi due anni la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno pompato centinaia di miliardi di dollari in Paesi che hanno attuato le varie restrizioni sanitarie; sono stati concessi più prestiti in un lasso di tempo più ristretto che mai.

Anche alla fine del 2022, mentre i tassi d’interesse continuavano a salire, il debito dei Paesi poveri continuava ad aumentare e l’importo che dovevano ai Paesi ricchi continuava a crescere. La storia fa rima e le visite dell’FMI in dozzine di Paesi ci ricordano i primi anni ’80, quando una bolla del debito fu fatta scoppiare dalle linee di politica della Federal Reserve. Ciò che seguì fu la peggiore depressione del Terzo Mondo sin dagli anni ’30.

Possiamo sperare che ciò non accada di nuovo, ma considerati gli sforzi della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale volti a caricare i Paesi poveri con più debito che mai, e dato che il costo del prestito sta aumentando significativamente, possiamo prevedere che invece accadrà di nuovo.

E anche laddove l’influenza della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale si dovesse ridurre, il Partito Comunista Cinese (PCC) sta cominciando a intervenire. Negli ultimi dieci anni la Cina ha cercato di emulare le dinamiche dell’FMI e della Banca Mondiale attraverso le proprie istituzioni di sviluppo e attraverso la sua “Iniziativa Belt and Road”.

Come scrive il geostratega indiano Brahma Chellaney: “Attraverso la sua iniziativa da mille miliardi di dollari, la Cina sta sostenendo progetti infrastrutturali in Paesi in via di sviluppo strategicamente posizionati, spesso estendendo ingenti prestiti ai loro governi. Di conseguenza i Paesi vengono intrappolati in una trappola del debito che li rende vulnerabili all’influenza della Cina […] i progetti che la Cina sostiene spesso non sono intesi a sostenere l’economia locale, ma a facilitare l’accesso cinese alle risorse naturali o ad aprire il mercato alle sue merci a basso costo e scadenti. In molti casi la Cina invia addirittura i propri lavoratori edili, riducendo al minimo il numero di posti di lavoro locali creati”.

L’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è l’ennesima dinamica di drenaggio economico che sottrae risorse ai Paesi poveri per destinarle alla dittatura genocida di Pechino. Quindi è confortante vedere che il PCC ha difficoltà in questo ambito. Sta cercando di far crescere la sua Asian Infrastructure Investment Bank a colpi di oltre $10 miliardi all’anno, ma sta incontrando una serie di problemi con i progetti che ha finanziato nei Paesi in via di sviluppo. Alcuni governi, come quello dello Sri Lanka, non possono ripagare i debiti. Dal momento che il PCC non può coniare la valuta di riserva mondiale, deve incassare la perdita. Per questo motivo non sarà in grado di avvicinarsi nemmeno lontanamente al volume dei prestiti del sistema guidato da Stati Uniti-Europa-Giappone.

Il che è certamente positivo: i prestiti del PCC potrebbero non comportare onerose condizioni di aggiustamento strutturale, ma certamente non tengono conto dei diritti umani. Infatti il PCC ha contribuito a proteggere un cliente della Belt and Road, il presidente dello Sri Lanka Mahinda Rajapaksa, dalle accuse di crimini di guerra alle Nazioni Unite. Considerando i suoi progetti nel Sud-est asiatico (dove sta esaurendo i minerali e il legname birmani ed erodendo la sovranità del Pakistan) e nell’Africa sub-sahariana (dove sta estraendo un’enorme quantità di terre rare), si tratta in gran parte dello stesso tipo di furto di risorse e tattiche di controllo geopolitico praticate per secoli dalle potenze coloniali.

Non è chiaro nemmeno se la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale considerino il PCC un cattivo attore. Dopotutto Wall Street e la Silicon Valley tendono ad essere piuttosto amichevoli con i peggiori dittatori del mondo. La Cina resta creditrice nei confronti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale: la sua appartenenza non è mai stata messa in discussione, nonostante il genocidio del popolo uiguro. Finché il PCC non ostacola il raggiungimento degli obiettivi generali, alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale non importa; c’è abbastanza bottino per tutti.

XVII. DA ARUSHA AD ACCRA

“Chi detiene il potere, controlla il denaro”.

~ Delegati di Arusha, 1979

Nel 1979 i Paesi in via di sviluppo si riunirono nella città tanzaniana di Arusha per ideare un piano alternativo all’aggiustamento strutturale guidato dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale che li aveva lasciati con montagne di debito e pochissima voce in capitolo sul futuro dell’economia mondiale.

“Coloro che detengono il potere controllano il denaro”, scrissero i delegati: “Coloro che gestiscono e controllano il denaro esercitano il potere. Un sistema monetario internazionale è sia una funzione che uno strumento delle strutture di potere prevalenti”.

Come scrive Stefan Eich in The Valuta Of Politics: “L’enfasi dell’Iniziativa di Arusha sul peso degli squilibri gerarchici del sistema monetario internazionale è stato un potente tentativo d’insistere sulla natura politica del denaro contrastando le pretese di competenza tecnica e neutrale avanzate dal Fondo Monetario Internazionale”.

“L’FMI può aver affermato una posizione neutrale, obiettiva e scientifica”, scrive Eich, “ma tutte le prove accademiche, inclusa la documentazione interna dello stesso, puntano nella direzione opposta. Il Fondo Monetario Internazionale è profondamente ideologico nel modo in cui inquadra il sottosviluppo come mancanza di mercati privati, ma applica sistematicamente doppi standard ignorando controlli di mercato simili nei Paesi sviluppati”.

Ciò è in sintonia con ciò che ha scritto Cheryl Payer, secondo cui gli economisti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale “hanno eretto una mistica attorno a loro che ha intimidito anche altri economisti”.

“Si rappresentano come tecnici altamente qualificati che determinano il tasso di cambio “corretto” e la quantità “appropriata” di creazione di denaro sulla base di formule complesse. Negano il significato politico del loro lavoro”.

Come la maggior parte del discorso di sinistra sulla Banca Mondiale e sul Fondo Monetario Internazionale, le critiche mosse ad Arusha erano per lo più mirate: le istituzioni sfruttavano e arricchivano i loro creditori a spese dei Paesi poveri. Ma le soluzioni di Arusha hanno mancato il bersaglio: pianificazione centralizzata, ingegneria sociale e nazionalizzazione.

I delegati di Arusha sostenevano l’abolizione della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale e la cancellazione dei debiti odiosi: obiettivi forse nobili, ma del tutto irrealistici. Oltre a ciò, il loro miglior piano d’azione era “spostare il potere nelle mani dei governi locali”; una soluzione inadeguata dato che la stragrande maggioranza dei Paesi del Terzo Mondo erano dittature.

Per decenni l’opinione pubblica nei Paesi in via di sviluppo ha sofferto mentre i loro leader esitavano tra la svendita del proprio Paese alle multinazionali e l’autoritarismo socialista. Entrambe le opzioni erano distruttive.

Questa è la trappola in cui si è trovato il Ghana da quando ha ottenuto l’indipendenza dall’Impero britannico. Nella maggior parte dei casi le autorità ghanesi, indipendentemente dall’ideologia, hanno scelto la possibilità di contrarre prestiti dall’estero.

Il Ghana ha una storia stereotipata con la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale: leader militari che prendono il potere con un colpo di stato solo per imporre aggiustamenti strutturali dell’FMI; i salari reali scesero dell’82% tra il 1971 e il 1982, con una contrazione della spesa sanitaria pubblica del 90% e un aumento dei prezzi della carne del 400% nello stesso periodo; prestiti per costruire enormi progetti come la diga di Akosombo, la quale alimentava un impianto di alluminio di proprietà degli Stati Uniti a spese di oltre 150.000 persone che contrassero la cecità fluviale e la paralisi a causa della creazione del più grande lago artificiale del mondo; l’esaurimento del 75% delle foreste pluviali del Paese, dovuto al boom delle industrie del legname, del cacao e dei minerali, mentre la produzione alimentare interna crollò. Nel 2022 sono confluiti in Ghana $2,2 miliardi in assistenza estera, ma il debito è al massimo storico di $31 miliardi rispetto ai $750 milioni di 50 anni fa.

Dal 1982, sotto la “guida” dell’FMI, il cedi ghanese è stato svalutato del 38.000%. Uno dei maggiori risultati dell’aggiustamento strutturale è stato, come altrove nel mondo, l’intensificazione dell’estrazione delle risorse naturali del Ghana. Tra il 1990 e il 2002, ad esempio, il governo ha ricevuto solo $87,3 milioni dei $5,2 miliardi di oro estratto dal suolo ghanese: in altre parole, il 98,4% dei profitti derivanti dall’estrazione dell’oro in Ghana è andato agli stranieri.

Come dice il manifestante ghanese Lyle Pratt: “L’FMI non è qui per abbassare i prezzi, non è qui per garantire la costruzione di strade – non sono affari loro e semplicemente non gli interessa […]. La preoccupazione principale dell’FMI è assicurarsi che ripaghiamo i nostri prestiti, non che ci sviluppiamo”.

Il 2022 è stata una replica. Il cedi ghanese è stata una delle valute con la performance peggiore al mondo, perdendo il 48,5% del suo valore. Il Paese sta affrontando una crisi del debito e, come nei decenni passati, è costretto a dare priorità al rimborso dei suoi creditori piuttosto che agli investimenti nella propria popolazione.

Nel mese di ottobre del 2022 il Paese ha ricevuto la sua ultima visita da parte del Fondo Monetario Internazionale. Se un prestito venisse finalizzato, sarebbe il 17esimo prestito dall’FMI per il Ghana sin dal colpo di stato militare sostenuto dalla CIA nel 1966. Si tratta di 17 livelli di aggiustamento strutturale.

Una visita da parte del Fondo Monetario Internazionale è un po’ come la visita del Tristo Mietitore: può significare solo una cosa, ovvero più austerità, dolore economico e, senza esagerare, morte. Forse i ricchi e benestanti possono uscire indenni, o addirittura arricchirsi, ma per i poveri e le classi lavoratrici, la svalutazione della valuta, l’aumento dei tassi d’interesse e la scomparsa del credito bancario sono devastanti. Questo non è il Ghana del 1973 di cui Cheryl Payer scrisse per la prima volta in The Debt Trap: è 50 anni dopo e la trappola è 40 volte più profonda.

Ma forse c’è un barlume di speranza.

Dal 5 al 7 dicembre 2022 nella capitale del Ghana, Accra, si è svolto un diverso tipo di visita. Invece di creditori che cercano di addebitare interessi al popolo del Ghana, i relatori e gli organizzatori dell’Africa Bitcoin Conference si sono riuniti per condividere informazioni, strumenti open source e tattiche di decentralizzazione su come costruire un’attività economica oltre il controllo dei governi corrotti e delle multinazionali estere.

Farida Nabourema è l’organizzatrice principale. È a favore della democrazia, a favore dei poveri, anti-Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. anti-autoritaria e pro-Bitcoin.

“Il vero problema”, scrisse una volta Cheryl Payer, “è chi controlla il capitale e la tecnologia che viene esportata nei Paesi più poveri”.

Si può sostenere che Bitcoin, come capitale e come tecnologia, venga esportato in Ghana e Togo: certamente non è nato lì, ma non è chiaro da dove sia nato. Nessuno sa chi lo ha creato e nessuno stato o azienda può controllarlo.

Possesso pro capite di Bitcoin e criptovalute: i Paesi con una storia di aggiustamenti strutturali da parte dell’FMI tendono ad occupare posizioni molto alte

Durante lo standard aureo, la violenza del colonialismo corrompette uno standard monetario neutrale. Nel mondo post-coloniale uno standard monetario fiat – sostenuto dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale– ha corrotto una struttura di potere post-coloniale. Per il Terzo Mondo, un mondo post-fiat sarà il giusto mix.

I sostenitori della teoria della dipendenza come Samir Amin si sono riuniti in conferenze come quella di Arusha e hanno chiesto la “disconnessione” dei Paesi poveri da quelli ricchi. L’idea: la ricchezza dei Paesi ricchi non è attribuibile solo alle loro democrazie liberali, ai diritti di proprietà e agli ambienti imprenditoriali, ma anche al furto di risorse e manodopera nei confronti dei Paesi poveri. Se si elimina questo drenaggio, questi ultimi potrebbero trarne vantaggio. Amin ha previsto che “la costruzione di un sistema oltre il capitalismo dovrà iniziare nelle aree periferiche”. Se siamo d’accordo con Allen Farrington sul fatto che il sistema fiat di oggi non è capitalismo e che l’attuale sistema monetario è profondamente imperfetto, allora Amin aveva ragione. È più probabile che un nuovo sistema emerga ad Accra, non a Washington o a Londra.

Come scrive Saifedean Ammous: “Il mondo in via di sviluppo è costituito da Paesi che non avevano ancora adottato le tecnologie industriali moderne quando un sistema monetario globale inflazionistico ha iniziato a sostituirne uno relativamente solido nel 1914. Questo sistema monetario globale e disfunzionale ha continuamente compromesso lo sviluppo di questi Paesi consentendo ai governi locali e agli stranieri di espropriare la ricchezza prodotta dalla loro gente”.

In altre parole: i Paesi ricchi si sono industrializzati prima di diventare fiat; i Paesi poveri sono diventati fiat prima di industrializzarsi. L’unico modo per spezzare il ciclo di dipendenza, secondo Nabourema e altri organizzatori dell’Africa Bitcoin Conference, potrebbe essere quello di trascendere la valuta fiat.

XVIII. UN BARLUME DI SPERANZA

“Il problema principale con la valuta convenzionale è tutta la fiducia necessaria per farla funzionare. Bisogna avere fiducia che il sistema bancario centrale non svaluterà la valuta, ma la storia delle valute fiat è piena di violazioni di tale fiducia”

~ Satoshi Nakamoto

Qualunque sia la risposta alla povertà nel Terzo Mondo, sappiamo che non si tratta di un aumento del debito. “I poveri del mondo”, conclude Cheryl Payer, “non hanno bisogno di un’altra ‘banca’, per quanto benigna. Hanno bisogno di lavoro adeguatamente retribuito, di un governo reattivo, di diritti civili e di autonomia nazionale”.

Per settant’anni la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale sono stati nemici di tutte e quattro le cose.

Guardando al futuro, dice la Payer, “il compito più importante per coloro che nei Paesi ricchi si preoccupano della solidarietà internazionale è lottare attivamente per porre fine al flusso di aiuti esteri”. Il problema è che il sistema attuale è progettato e incentivato per mantenere attivo questo flusso; l’unico modo per apportare un cambiamento è attraverso un cambiamento totale di paradigma.

Sappiamo già che Bitcoin può aiutare le persone nei Paesi in via di sviluppo a ottenere la libertà finanziaria personale e a sfuggire ai sistemi imposti loro da governanti corrotti e dalle istituzioni finanziarie internazionali. Questo è ciò che è stato accelerato ad Accra, contrariamente ai progetti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Bitcoin può davvero cambiare le dinamiche centro-periferia del potere e della struttura delle risorse mondiali?

Nabourema è fiduciosa e non capisce perché la sinistra in generale condanni o ignori Bitcoin.

“Uno strumento in grado di consentire alle persone di costruire e accedere alla ricchezza, indipendentemente dalle istituzioni di controllo, può essere visto come un progetto di sinistra”, afferma, “come attivista credo che i cittadini dovrebbero essere pagati in valute che realmente valorizzano la loro vita e i loro sacrifici, Bitcoin è una rivoluzione popolare”.

“Trovo doloroso”, dice, “che un agricoltore dell’Africa sub-sahariana guadagni solo l’1% del prezzo del caffè sul mercato globale. Se riuscissimo ad arrivare a un punto in cui i coltivatori potessero vendere il loro caffè senza tante istituzioni intermedie, ed essere pagati in bitcoin, potreste immaginare quanta differenza farebbe per le loro vite”.

“Oggi”, spiega, “i nostri Paesi del Sud del mondo continuano a prendere in prestito denaro, ma col tempo le nostre valute si svalutano e perdono valore e finiamo per dover effettuare il doppio o il triplo del pagamento inizialmente promesso per rimborsare i nostri creditori”.

“Ora immaginate”, dice, “se arrivassimo a una fase in 10 o 20 anni in cui Bitcoin è la moneta globale accettata dalle imprese in tutto il mondo, dove ogni nazione deve prendere in prestito in bitcoin, spenderli e ripagare i loro debiti sempre in bitcoin. In quel mondo i governi stranieri non potranno più esigere che li ripaghiamo in valute che dobbiamo guadagnare e che loro invece possono semplicemente stampare dal nulla; e solo perché decidono di aumentare i tassi d’interesse, ciò non metterà automaticamente a repentaglio la vita di milioni o miliardi di persone nei nostri Paesi”.

“Naturalmente”, afferma Nabourema, “Bitcoin presenterà problemi come qualsiasi innovazione, ma il bello è che questi possono essere risolti con una collaborazione pacifica e globale. Nessuno sapeva 20 anni fa quali cose straordinarie ci avrebbe permesso di fare Internet oggi. Nessuno può dire quali cose straordinarie Bitcoin ci permetterà di fare tra 20 anni”.

“La via da seguire”, dice, “è un risveglio delle masse: affinché comprendano i dettagli di come funziona il sistema e capiscano che ci sono alternative. Dobbiamo essere in una posizione in cui le persone possano rivendicare la propria libertà, in cui le loro vite non siano controllate da autorità che possono confiscare la loro libertà in qualsiasi momento e senza conseguenze. A poco a poco ci stiamo avvicinando a questo obiettivo grazie a Bitcoin”.

“Poiché il denaro è il centro di tutto nel nostro mondo”, afferma Nabourema, “il fatto che ora siamo in grado di ottenere l’indipendenza finanziaria è molto importante per le persone nei nostri Paesi, dato che cerchiamo di rivendicare i nostri diritti in ogni campo e settore”.

In un’intervista per questo saggio, Jeff Booth spiega che man mano che il mondo si avvicina a uno standard Bitcoin, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale avranno meno probabilità di essere creditori e più probabilità di essere co-investitori, partner, o semplicemente concedenti. Poiché i prezzi diminuiscono nel tempo, ciò significa che il debito diventerà più costoso e più difficile da ripagare. E con la stampante monetaria americana spenta, non ci sarebbero più salvataggi. Inizialmente la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale cercheranno di continuare a prestare, ma per la prima volta perderanno grandi quantità di denaro poiché i Paesi potranno liberamente andare in default mentre passano allo standard Bitcoin. Potrebbero quindi prendere in considerazione il co-investimento, dove potrebbero interessarsi maggiormente al successo reale e alla sostenibilità dei progetti che sostengono poiché il rischio sarebbe condiviso in modo più equo.

Il mining di Bitcoin è un’ulteriore area di potenziale cambiamento. Se i Paesi poveri potessero scambiare le loro risorse naturali con denaro senza trattare con potenze straniere, allora forse la loro sovranità potrebbe rafforzarsi, invece di erodersi. Attraverso il mining, grandi quantità di energia fluviale, idrocarburi, sole, vento, calore del suolo e OTEC offshore nei mercati emergenti potrebbero essere convertite direttamente nella valuta di riserva mondiale senza chiedere il permesso a qualcuno di esterno. Ciò non è mai stato possibile prima. La trappola del debito sembra davvero inevitabile per la maggior parte dei Paesi poveri e continua a crescere ogni anno. Investire in riserve, servizi e infrastrutture Bitcoin è una via d’uscita e un percorso per contrattaccare.

🔌 FARE MINING CON ELETTRICITÀ RUBATA

👹No, non è un piano per diventare ricchi che ti stiamo consigliando.

🇵🇱È quanto è accaduto in uno dei più importanti tribunali della Polonia.

☀️In estate sono state scoperte diverse ASIC collegate all’impianto del tribunale, che a costo… pic.twitter.com/IOO6QVqBqb

— Criptovaluta.it (@CriptovalutaI) November 16, 2023

Bitcoin, dice Booth, può cortocircuitare il vecchio sistema che ha sovvenzionato i Paesi ricchi a scapito dei salari nei Paesi poveri. In quel vecchio sistema, la periferia doveva essere sacrificata per proteggere il centro. Nel nuovo sistema, la periferia e il centro possono lavorare insieme. In questo momento il sistema del dollaro mantiene le persone povere attraverso la deflazione salariale nella periferia, ma creando uno standard neutrale per tutti, si crea una dinamica diversa. Con un unico standard monetario, i saggi salariali si avvicinerebbero necessariamente anziché essere separati. Non abbiamo parole per descrivere una simile dinamica, dice Booth, perché non è mai esistita: una sorta di “cooperazione forzata”.

Booth descrive la capacità degli Stati Uniti di emettere istantaneamente qualsiasi importo di debito in più come un “furto tramite la base monetaria”. I lettori potrebbero avere familiarità con l’Effetto Cantillon, secondo il quale coloro che sono più vicini alla stampante monetaria traggono beneficio dalla nuova liquidità, mentre quelli più lontani ne soffrono. Ebbene si scopre che esiste anche un Effetto Cantillon mondiale, in cui gli Stati Uniti traggono vantaggio dall’emissione della valuta di riserva globale e i Paesi poveri ne soffrono.

“Uno standard Bitcoin”, dice Booth, “porrà fine a tutto questo”.

Quanto del debito mondiale è odioso? Ci sono migliaia di miliardi di dollari in prestiti creati per capriccio di dittatori e istituzioni finanziarie sovranazionali non elette, senza il consenso da parte delle persone loro malgrado coinvolte. La cosa morale da fare sarebbe cancellare questo debito, ma ovviamente ciò non accadrà mai perché i prestiti esistono in definitiva come attivi nei bilanci della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Preferiranno sempre mantenere il patrimonio e creare nuovo debito per ripagare quello vecchio.

La “scommessa” dell’FMI sul debito sovrano ha creato la bolla più grande di tutte: più grande della bolla dot-com, più grande della bolla dei mutui subprime e più grande persino della bolla COVID alimentata dagli stimoli monetari/fiscali. Smantellare questo sistema sarà estremamente doloroso, ma è la cosa giusta da fare. Se il debito è la droga, e la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale sono gli spacciatori, e i governi dei Paesi in via di sviluppo sono i tossicodipendenti, allora è improbabile che entrambe le parti vogliano fermarsi. Ma per guarire i tossicodipendenti devono andare in riabilitazione: il sistema fiat lo rende praticamente impossibile; nel sistema Bitcoin si potrebbe arrivare al punto in cui il paziente non ha altra scelta.

Come afferma Saifedean Ammous in un’intervista per questo saggio, oggi, se i governanti del Brasile vogliono prendere in prestito $30 miliardi e il Congresso degli Stati Uniti è d’accordo, l’America può schioccare le dita e stanziare i fondi attraverso l’FMI. È una decisione politica, ma, dice, se ci liberiamo della stampante monetaria, allora queste decisioni diventeranno meno politiche e inizieranno ad assomigliare al processo decisionale più prudente di una banca che non sa che arriverà alcun piano di salvataggio in caso di guai.

Negli ultimi 60 anni di dominio della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, innumerevoli tiranni e cleptocrati sono stati salvati – contro ogni buon senso finanziario – in modo che le risorse naturali e la manodopera delle loro nazioni potessero continuare a essere sfruttate dai Paesi ricchi. Ciò è stato possibile perché si è potuto stampare la valuta di riserva mondiale.

Ma in uno standard Bitcoin, si chiede Ammous, chi concederà questi prestiti miliardari ad alto rischio in cambio di aggiustamenti strutturali?

“Voi”, chiede, “e con i bitcoin di chi?”

[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/

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