L’oro è pronto per il decollo?

di Alasdair Macleod

La posizione dell’oro dal punto di vista tecnico sembra molto positiva, ma tale analisi dovrebbe essere supportata dai fondamentali.

In larga misura sono negli occhi di chi guarda, le cui opinioni possono variare da positive a negative e tutto il resto. E nonostante tutti i possibili ottimismi, si stanno addensando nubi all’orizzonte che probabilmente continueranno a minare le prospettive economiche globali e tutti i valori degli asset finanziari. Le valute fiat sono una spanna sotto rispetto al denaro reale: l’oro.

L’opinione attuale è che l’inflazione sia in remissione e che l’impennata dei tassi d’interesse sia finita. In questo saggio andrò a sottolineare dove sbagliano le aspettative sull’inflazione e l’errore di credere che il controllo dei tassi d’interesse sia la soluzione.

Ne consegue quindi che le trappole del debito nei Paesi del G7 rappresentano un problema più serio di quanto generalmente si creda. Inoltre Cina e Russia sono consapevoli del probabile impatto degli eventi attuali sulle valute fiat ed è per questo che hanno accumulato riserve auree.

In breve, ci troviamo di fronte a una transizione tra le valute cartacee scoperte e valute cartacee coperte, il che potrebbe spiegare perché la posizione tecnica dell’oro appaia così positiva.

Se siete esperti di grafici, allora saprete che l’attuale posizione di mercato dell’oro è molto rialzista. Le medie mobili nel grafico qui sopra sono in sequenza rialzista. L’attuale calo del prezzo dell’oro dovrebbe trovare un forte supporto al livello attuale, compreso tra $1.910 e $1.923 e un seguace della Teoria delle onde di Elliot potrebbe dire che si sia verificato un consolidamento a tre gambe iniziato nell’agosto 2020 e completato nel novembre 2022, durato poco più di 13 mesi e che è un numero di Fibonacci. La mossa successiva sarà l’inizio di un nuovo mercato rialzista.

Nonostante la natura retrospettiva dell’analisi tecnica, l’argomentazione rialzista è convincente, in particolare nel contesto delle crescenti tensioni in Medio Oriente e dell’incombente recessione globale. Il fatto è che entrando in recessione vediamo le finanze pubbliche del G7 già impantanate nelle trappole del debito, cosa che porterà a una serie di crisi dei finanziamenti. Queste ultime faranno inevitabilmente salire i rendimenti obbligazionari e dirotteranno i capitali d’investimento dagli attori del settore privato al debito pubblico, peggiorando le prospettive economiche. E poiché le entrate pubbliche dipendono da un’attività economica redditizia, la stretta sui finanziamenti finirà per minare le finanze pubbliche stesse.

È una situazione che riecheggia quella degli anni ’70, quando l’instabilità monetaria portò l’oro a salire da $35 a $850 il 21 gennaio 1980. Allo stesso tempo, il tasso di riferimento statunitense salì da un minimo del 3,3% nel febbraio 1972 al massimo del 13,8% quando l’oro raggiunse il picco, per poi superare il 19% l’anno successivo. Oggi l’idea che sia l’oro che i tassi d’interesse possano salire in tandem è considerata utopica dall’establishment economico. Tuttavia dall’agosto 2020 il tasso di riferimento statunitense è salito dallo 0% al 5,33% e il prezzo dell’oro in dollari è rimasto pressoché invariato – difficilmente la correlazione negativa sostenuta dall’establishment.

A causa della forza relativa del dollaro, il prezzo dell’oro in altre valute è ora più alto rispetto a quando ha raggiunto il picco per la prima volta il 6 agosto 2020, come illustrato nel grafico seguente.

Nel caso dello yen giapponese, è più alto del 35%, in euro più alto del 4%, in sterline dell’1% mentre in dollari è più basso del 6%. Lo yen è stato particolarmente debole, a causa della politica monetaria della Banca del Giappone che ha mantenuto in territorio negativo il tasso sui depositi.

Poiché è ampiamente riconosciuto che l’economia globale si trova ad affrontare una recessione economica, esiste anche un’idea sbagliata riguardo alle conseguenze sui prezzi al consumo. Si presume che una recessione riduca la domanda portando ad un eccesso di beni e quindi ad una riduzione dei prezzi. Stando così le cose, si dice che con il loro miglioramento del potere d’acquisto ci si potrebbe aspettare che le valute si rafforzino rispetto all’oro. Questo malinteso risale ai primi anni ’30, quando i prezzi dei beni erano effettivamente espressi in oro perché il dollaro era legato ad esso a $20,67 l’oncia. Il fatto che il dollaro fosse stato svalutato del 40% dal presidente Roosevelt nel 1934 conferma che la forza monetaria era nell’oro, non nel dollaro. E negli anni ’70, quando il dollaro e tutte le altre valute vennero staccate dal metallo giallo, le recessioni furono accompagnate da un aumento dei prezzi al consumo.

Queste e altre questioni devono essere affrontate per capire perché il grafico dell’oro appare così positivo e cosa ciò implichi.

Perché i prezzi al consumo crollarono durante la Grande Depressione

Come accennato in precedenza, l’esperienza dei primi anni ’30 fu quella di un calo significativo dei prezzi al consumo. Si stima che tra il dicembre 1929 e il giugno 1932 l’indice dei prezzi al consumo di tutti gli articoli fosse diminuito dell’8,3%, con il settore alimentare più colpito in calo del 13%. Ciò fece eco al calo del livello generale dei prezzi durante la crisi del 1920-1922, quando l’indice dei prezzi al consumo diminuì del 9,7%.

Sulla base di questa esperienza, alla fine degli anni ’30 gli economisti conclusero che durante una recessione i prezzi sarebbero sempre scesi e che la Legge di Say, da sempre alla base dell’economia classica, era errata. Ci sono elementi che sembrano sfuggire alle restrizioni della Legge di Say, come i prezzi delle materie prime che subiscono un calo della domanda in un periodo di crisi, ma anche questo aspetto presuppone che la loro produzione non venga ridotta in risposta al calo della domanda, il che di solito non è il caso. In sostanza, i disallineamenti tra domanda e offerta sono solo una questione di tempistica.

Sia durante le depressioni dei primi anni ’20 che dei primi anni ’30, i prezzi dei prodotti alimentari furono ulteriormente indeboliti dalla rapida meccanizzazione dell’agricoltura che ne incrementò la produzione. Come nel caso della crisi del 1920-1922, le difficoltà economiche dei primi anni ’30 furono l’eliminazione del credito in eccesso generato nel precedente boom creditizio.

Il punto della Legge di Say: produciamo per consumare, pertanto non può esserci un crollo generale perché la produzione diminuirà con il consumo. Si può andare oltre e affermare che, a parte il destocking (che oggi con la gestione delle scorte just-in-time è stato ridotto al minimo), i dipendenti perderanno prima il lavoro e poi ridurranno i consumi.

Nel suo desiderio di promuovere l’intervento statalista, Keynes dovette respingere la Legge di Say, cosa che fece per motivi infondati:

Pertanto la Legge di Say, secondo cui il prezzo della domanda aggregata della produzione nel suo insieme è uguale al prezzo dell’offerta aggregata per tutti i volumi di produzione, è equivalente alla proposizione secondo cui non vi è alcun ostacolo alla piena occupazione. Se, tuttavia, questa non è la vera Legge che collega le funzioni della domanda e dell’offerta aggregata, c’è un capitolo di vitale importanza della teoria economica che resta da scrivere e senza il quale tutte le discussioni riguardanti il volume dell’occupazione aggregata sono inutili.

Si tratta di un travisamento intenzionale di una verità ovvia che non è mai stata intesa come qualcosa di più di una generalizzazione, e certamente non da giustificare in un’equazione matematica che fu effettivamente l’argomentazione di Keynes. Ma oggi la Teoria Generale di Keynes è il vademecum per gli economisti matematici e li fuorvia sulla relazione tra un crollo dell’attività economica e i prezzi.

Come abbiamo visto all’inizio degli anni ’30, i prezzi crollarono dell’8%; i prezzi delle materie prime per i prodotti agricoli calarono del 60% tra il 1929 e il febbraio del 1933, rispetto al calo dei prezzi alimentari del 13% nell’IPC, indicando che i costi di produzione alimentare in realtà salirono compensando gran parte del calo del valore dei prodotti per gli agricoltori. Le ragioni di questi cali sono spiegate più dettagliatamente di seguito.

Il Survey of Current Business del febbraio 1935 sui prezzi delle materie prime all’ingrosso rilevava anche quanto segue:

Un’altra classificazione del Bureau of Labor Statistics è fornita nel grafico 3 [riprodotto di seguito], che mostra i 10 gruppi di merci organizzati in base al grado di declino nei diversi gruppi. Come ivi mostrato, i prezzi di tre gruppi, metalli e prodotti in metallo, mobili per la casa, prodotti chimici e farmaci, scesero di poco meno del 25% dal 1929 ai minimi raggiunti nella prima parte del 1933, e i prezzi dei materiali da costruzione solo poco più del 25%.

Sì, si trattava di cali del livello generale dei prezzi, ma non così gravi come siamo portati a supporre oggi e possono essere facilmente spiegati senza negare la Legge di Say. Nel 1929-1932 ci fu il crollo del mercato azionario, una serie di crisi bancarie regionali nel 1931 e 1932, e nel marzo 1933 il sistema bancario commerciale crollò del tutto. I depositi a vista si contrassero del 35% tra il 1929 e il 1933 e, in totale, circa 9.000 banche fallirono e non esisteva alcuna assicurazione sui depositi.

A quel tempo il dollaro era scambiabile con l’oro, quindi la contrazione del credito nell’economia ebbe l’effetto sui prezzi di un’improvvisa e diffusa scarsità di oro. Chiaramente fu questa scarsità a far scendere i prezzi, inoltre, tenendo conto di una contrazione dei depositi pari al 35%, le materie prime non alimentari nel grafico sopra in media non scesero affatto (si veda l’ultima colonna – “Diversi dai prodotti agricoli e alimentari”).

La situazione oggi è completamente diversa. Le valute non sono più legate all’oro e vengono svalutate arbitrariamente dalle banche centrali quando ritenuto necessario. Il credito bancario si sta contraendo e, in caso di fallimento bancario, esistono garanzie sui depositi e possiamo essere certi che, invece di fallire, le banche saranno salvate dalle rispettive autorità.

In breve, non vi è alcuna certezza sul potere d’acquisto futuro delle valute fiat. Stiamo arrivando al nocciolo della questione del motivo per cui il livello generale dei prezzi aumenterà nell’imminente recessione: la futura espansione del credito da parte del sistema bancario centrale per compensare una recessione, potenziali fallimenti bancari importanti e l’inevitabile liquidazione degli investimenti improduttivi sono destinati a diluire il potere d’acquisto di tutte le valute del G7, fino al punto in cui svanirà la fiducia della popolazione in esse.

Questo ci porta al ruolo dei tassi d’interesse. Come abbiamo visto nel 1981, il tasso di riferimento statunitense superiore al 19% pose fine alla corsa rialzista dell’oro e portò a un lungo calo dei tassi d’interesse del dollaro. Funzionò perché gli stranieri videro un rendimento positivo a quei tassi dopo aver tenuto conto della perdita anticipata del potere d’acquisto futuro del dollaro. Oggi arriveranno alla stessa conclusione, solo che le loro partecipazioni in dollari e asset denominati in dollari, pari a $33.000 miliardi, sono addirittura superiori al PIL degli Stati Uniti. A ciò va aggiunto il credito offshore in dollari stimato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali a ulteriori $85.000 miliardi e altri $10.000 miliardi in eurobond. La potenziale instabilità del potere d’acquisto del dollaro potrebbe facilmente portare a una liquidazione estera sfrenata di queste cifre.

La conclusione può essere solo una: nonostante l’attuale ottimismo nei mercati finanziari, i prezzi continueranno a salire ben al di sopra del tasso del 2% imposto dalle banche centrali e i tassi d’interesse saliranno con essi. E se gli anni ’70 dovessero rivelarsi un precedente per i giorni attuali, possiamo aspettarci tassi d’interesse molto più alti nei prossimi anni.

L’inutilità della gestione economica basata sui tassi d’interesse

Nel tentativo di allontanare l’inflazione, le banche centrali hanno rialzato i tassi d’interesse distruggendo tutti i modelli governativi, bancari e di business. I problemi causati sono evidenti a tutti, fino al capofamiglia di basso livello che deve far fronte a pagamenti più elevati del mutuo e al debito della carta di credito. Naturalmente c’è una reazione da parte dei monetaristi-meccanicisti e di altri che sostengono che le autorità si sono spinte troppo oltre. Nella loro ricerca della stabilità dei prezzi, gli economisti mainstream stanno ora cercando di determinare il tasso d’interesse naturale, che oggi chiamano r*. Non sorprenderà che la risposta che daranno sarà che dovrebbe essere più basso.

Il concetto nasce dall’analisi di Knut Wicksell, il quale nel 1898 spiegò che un tasso d’interesse naturale rappresentava il tasso d’interesse sui prestiti che si equilibra rispetto ai prezzi delle materie prime, senza che li aumentasse o abbassasse. Le sue conclusioni giunsero in un’epoca in cui il gold standard era onnipresente e si applicavano a sistemi monetari in cui il credito era considerato un sostituto credibile dell’oro.

Va notato che il concetto non si applica esclusivamente al potere d’acquisto di quest’ultimo, ma al credito rimborsabile in oro più gli interessi. Era il tasso d’interesse rimborsabile in oro determinato a livello nazionale a fare la differenza tra il valore del metallo giallo in un centro rispetto a un altro, l’arbitraggio assicurava che i prezzi non si discostassero significativamente dalla loro norma internazionale.

Come notato sopra, la proposta di Wicksell arrivò in un’epoca di standard aurei universali. Stava descrivendo il tasso d’interesse naturale necessario per allineare la relazione interna tra oro e materie prime al valore medio internazionale del potere d’acquisto dell’oro. La situazione con le valute fiat instabili, però, è completamente diversa, un fatto che viene ignorato dagli economisti che credono che i rapporti tra le valute fiat e le materie prime non siano diversi da quelli dell’oro.

Ma r* è del tutto teorico e non può essere definito. Per questo motivo anche i funzionari all’interno del sistema Federal Reserve non sono d’accordo, con la FED di New York che lo stima all’1,13% e la FED di Richmond al 2,2%. Ma tutto questo giocherellare con i numeri, come nel caso della Taylor Rule strettamente associata, è irrilevante e va contro l’evidenza empirica. Anche prima di Wicksell l’uso dei tassi d’interesse per stabilizzare la domanda di materie prime, cosa che si estende anche ad altri input produttivi, portava a enormi problemi. La manipolazione dei tassi d’interesse è sempre stata mirata all’obiettivo sbagliato ed è necessario illustrare questo punto importante.

Nel 1799 si verificò una crisi finanziaria ad Amburgo che portò il tasso di sconto al 15% (equivalente a un tasso d’interesse di oltre il 17,5%), attirando l’oro lontano dalla Banca d’Inghilterra: i commercianti potevano riscattare la sterlina in oro presso la BoE rinunciando a un rendimento da interesse di pochi punti percentuali e spedirla ad Amburgo dove avrebbe guadagnato un rendimento extra a causa dello sconto. Al netto di pericoli e costi della spedizione, un commerciante avrebbe ottenuto un profitto netto di oltre il dieci per cento, convertibile in oro.

All’epoca questo arbitraggio fu poco compreso dalle autorità che elaboravano le normative nel settore bancario e commisero lo stesso errore nel Bank Charter Act del 1844. Di conseguenza ci furono tre crisi nel 1847, 1857 e 1866, quando la Banca d’Inghilterra dovette sospendere i suoi obblighi di cambio dell’oro ai sensi del suo statuto. La radice di tutte queste crisi, inclusa la corsa alle riserve auree nel 1799, era che la BoE manipolava i tassi d’interesse tenendo conto dei fattori economici e non del livello delle riserve monetarie. Negli obiettivi conflittuali dell’impostazione dei tassi d’interesse tra la soddisfazione della valuta e la stabilità economica interna, venne sempre fatta la scelta sbagliata.

Oggi le riserve auree non sono più coinvolte, sostituite da un sistema monetario instabile. Ciò porta le autorità a un ulteriore dilemma: ciascuna banca centrale dovrebbe utilizzare i tassi d’interesse per stabilizzare le proprie valute rispetto al dollaro, o dovrebbe usarli per stabilizzare le proprie valute rispetto alle materie prime come richiede la teoria wickselliana? Chiaramente sono obbligate a seguire il dollaro e se quest’ultimo è il sostituto di quella reliquia barbarica, sicuramente l’obiettivo del tasso d’interesse per il dollaro dev’essere quello di equilibrarsi rispetto ai prezzi delle materie prime, senza né aumentarli né abbassarli.

Si potrebbe pensare che concentrarsi sui prezzi al consumo sia l’obiettivo della FED. Discutere sulle teorie wickselliane e r* presuppone che i dollari siano il nuovo oro e che mentre le altre valute dovrebbero gestire i propri tassi d’interesse in rapporto ai tassi di cambio rispetto al dollaro, l’obiettivo della FED è raggiungere quella stabilità wickselliana. Ciononostante rimane il problema che nessuno può concordare sulla quantificazione di r*, per non parlare di quanto dovrebbe essere in futuro. E nessuno nell’establishment monetario e creditizio sembra capire che la teoria di Wicksell era compresa tra una merce universalmente accettata come moneta fisica senza rischio di controparte in un contesto domestico e tutte le altre materie prime. Non è lo stesso del rapporto tra le materie prime in generale e il credito scoperto, che è ciò che rappresenta una valuta fiat, il cui valore futuro non è affatto legato alle materie prime ma alla fiducia del mercato nelle politiche monetarie e fiscali future.

In un gold standard e senza l’intervento della banca centrale, la teoria wickselliana ha senso. Ma anche in questo caso la situazione è dinamica, con eventi altrove che influenzano i risultati dei tassi d’interesse, come illustrato dall’esperienza del 1799 ad Amburgo. Il concetto di r* può essere determinato solo dai mercati e dagli eventi, e questo è ancora più vero nel caso delle valute fiat instabili, il cui valore rispetto all’oro e alle materie prime è del tutto soggettivo. Se si dovesse ipotizzare l’attuale r* per il dollaro, questo sarebbe superiore al 4,5% (il rendimento attuale sul benchmark del decennale statunitense), non all’1,13% stimato dalla FED di New York. Invece i banchieri centrali adottano le aspettative sui tassi d’interesse come base per determinare r*, parametri che essi stessi stabiliscono.

Di conseguenza possiamo vedere che gli errori nelle linee di politica creditizie sono al livello più basico della teoria odierna. Ancora oggi il rapporto tra oro e materie prime rimane stabile, come dimostra chiaramente il grafico qui sotto; la stessa cosa non si può dire per le valute fiat.

Ho creato grafici simili per altre materie prime e ho scoperto che esiste lo stesso rapporto. In combinazione con l’erosione del potere d’acquisto del dollaro da quando l’accordo di Bretton Woods è stato sospeso nel 1971, possiamo vedere che è l’oro a mantenere il suo ruolo internazionale come moneta.

L’approccio errato riguardo i tassi d’interesse da parte delle autorità monetarie, insieme a deficit fiscali crescenti, conferma la conclusione tecnica del grafico principale di questo articolo: il potere d’acquisto di tutte le valute fiat continuerà a scendere quando denominato in oro.

Finanziare i deficit di bilancio

Uno dei problemi incontrati negli anni ’70 fu la riluttanza degli stranieri a finanziare i deficit di bilancio pubblici a tassi d’interesse bassi. Ciò colpì duramente il Regno Unito in particolare, dove un governo di sinistra era impegnato a distruggere la ricchezza reale attraverso importanti deficit di bilancio.

A quel tempo gli Stati Uniti erano in una posizione di gran lunga migliore. Tra il 1971 e il 1980 la somma dei deficit di bilancio del governo statunitense era di $421.823 milioni, il 15% del PIL nel 1980. Al contrario, il deficit di bilancio totale negli ultimi dieci anni è stato pari a $12.918 miliardi, il 47% del PIL nel 2023. Inoltre nel 1970 il rapporto debito/PIL degli Stati Uniti era pari al 34%, mentre oggi è pari al 122%. Tra i Paesi del G7, però, le finanze pubbliche degli Stati Uniti sono quelle messe meglio. Il Giappone ha un rapporto debito/PIL superiore al 260%, seguito dall’Italia con il 144%. La posizione giapponese è particolarmente allarmante in un contesto globale: il deficit di bilancio, pari al 6,4% del PIL, è stimato a $37.250 miliardi e un aumento dell’1% negli oneri finanziari medi aggiungerebbe $15.000 miliardi al deficit. Non sorprende affatto che i giapponesi resistano fermamente all’aumento dei rendimenti obbligazionari, per non parlare dell’impatto sul bilancio della Banca del Giappone che possiede circa il 53% di tutti i titoli di stato.

La presunta crisi finanziaria del Giappone è importante per il resto del mondo, in parte perché le istituzioni giapponesi hanno investito in altri mercati al fine di aumentare i rendimenti, e in parte perché i tassi negativi a breve termine sono una fonte molto attraente di finanziamento a leva in altri mercati. Finché questa situazione persiste, non solo è possibile realizzare profitti con l’effetto leva tra i diversi mercati dei titoli di stato, ma c’è anche un sostanziale bonus derivante dal declino dello yen. Di conseguenza l’aumento dei tassi d’interesse dello yen – che ora è inevitabile – non solo farà precipitare il Giappone in crisi, ma porterà anche a una significativa contrazione dei flussi di credito mondiali.

Questi aspetti delle trappole del debito sono solo un lato dell’equazione. Non è solo l’aumento dei deficit a determinare il rapporto tra debito e PIL, ma anche le conseguenze sul PIL stesso. Quest’ultimo è sostenuto dai disavanzi pubblici e dai cambiamenti nel livello del credito delle banche commerciali. Questi fatti rendono il PIL un indicatore altamente fuorviante, consentendo alle agenzie governative di propagandare la crescita economica e nascondere le prove del declino dell’attività economica sottostante. Altre statistiche ufficiali, come le indagini sull’occupazione, sono notoriamente imprecise e si sospetta che vengano utilizzate per dire tutt’altro che la verità. Gli indicatori migliori riguardano la logistica e ci raccontano di numerosi fallimenti nel settore degli autotrasporti. Un ulteriore indicatore sono le entrate fiscali, le quali sono diminuite drasticamente dopo il picco nel secondo trimestre del 2022.

Non si possono negare le conseguenze di molti anni di costi dei finanziamenti ultra bassi seguiti adesso da un sostanziale aumento dei tassi d’interesse. Non solo hanno scaraventato l’intero sistema bancario in crisi, non solo hanno fatto scattare trappole del debito, non solo hanno minato la ricchezza personale e aziendale, ma hanno messo in luce massicci investimenti industriali sbagliati su scala globale. Negli anni a venire la mutata situazione dei tassi d’interesse continuerà a portare a bancarotte, molte delle quali richiederanno il sostegno statale per paura di un collasso totale del sistema creditizio mondiale.

La risoluzione di queste distorsioni è diventata inevitabile, portando a una contrazione del credito nel settore privato, aggravata dalle richieste degli stati per ulteriori finanziamenti. Questa ridistribuzione del credito dall’attività economica genuina alle finanze pubbliche peggiora la situazione, compromettendo ancora di più le entrate fiscali. Il calo di queste ultime contribuisce all’aumento dei deficit. Questo crescente spostamento di risorse economiche verso il finanziamento dei disavanzi pubblici è destinato ad andare a scapito del potere d’acquisto delle valute fiat e dei rendimenti obbligazionari.

A meno che non possa essere fermato, il risultato finale sarà un collasso totale del sistema creditizio denominato in valute fiat. L’unica soluzione è legare il credito all’oro, ma come possono raggiungere questo obiettivo i governi le cui riserve auree sono esaurite e quando circa un terzo di esse viene conteggiato due volte e quindi non esistono? Come possono i governi invertire un secolo d’interventismo progressista? Come può la classe politica smettere di farsi gli affari di tutti, quando viene eletta per fare proprio questo?

Indubbiamente è stata la comprensione precoce di questo punto che ha convinto i cinesi e poi i russi ad accumulare abbastanza oro da proteggere sé stessi e le loro popolazioni dalle follie delle valute fiat dei Paesi del G7.

Cina, Russia e BRICS+

Non fatevi ingannare dalle riserve auree ufficiali della Cina, essa ha accumulato oro da quando la Peoples Bank of China è stata istituita ai sensi dei Regolamenti cinesi sul controllo dell’oro e dell’argento, datati 1 luglio 1983. Per diciannove anni la Cina ha accumulato oro durante un prolungato mercato ribassista mentre le banche svizzere e altri player l’hanno considerato inutile e venduto i possedimenti dei propri clienti. Le banche centrali occidentali hanno ridotto le loro riserve e hanno affittato l’oro e non tornerà mai più. Solo quando la PBoC ne aveva accumulato abbastanza ha revocato definitivamente il divieto alla proprietà personale, aprendo lo Shanghai Gold Exchange nel 2002, e ha iniziato a incoraggiare le persone ad acquistarne. E in tutto quel tempo la Cina ha investito molto nella produzione mineraria e nelle capacità di raffinazione, importando enormi quantità di lingotti dall’Occidente e oro doré per la raffinazione. Da ormai quarant’anni la Cina è come un Hotel California per l’oro, da cui praticamente non escono più lingotti.

Perché questa ossessione? Tra le scorte nascoste e il settore privato, stimo che tra lo stato e il popolo la Cina ha potuto accumulare oltre 50.000 tonnellate, che rappresentano circa il 25% di tutto l’oro estratto nel corso della storia. Questa abitudine all’oro si è diffusa oltre la Cina fino ai partner asiatici dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai; anche la Russia ha iniziato a seguire lo stesso percorso della Cina in seguito alle sanzioni imposte dall’Occidente all’inizio del 2022.

La Russia ha cercato d’inserire una valuta basata sull’oro nell’agenda dei BRICS al vertice di Johannesburg dello scorso agosto. La Cina e l’India, però, non erano così entusiaste. Gli imperscrutabili cinesi hanno una visione lungimirante, lasciando presumibilmente che siano gli americani a commettere tutti gli errori di politica monetaria, dai quali alla fine si sono protetti accumulando un’enorme fetta delle riserve auree mondiali. La Cina non vuole essere accusata di destabilizzare il dollaro intraprendendo un passo così radicale, inoltre preferisce pagare le importazioni di materie prime nella propria valuta fiat piuttosto che in renminbi coperti dall’oro.

L’India rimane profondamente keynesiana nelle sue politiche monetarie e il suo aumento delle riserve auree è stato minore nel contesto sia della sua popolazione che dell’economia. Tra i nuovi membri dei BRICS figurano Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti che certamente preferiscono i pagamenti legati all’oro per le loro esportazioni di petrolio e gas alle valute fiat. È interessante notare che quasi tutti i membri, gli associati e i partner del dialogo dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai hanno partecipato al vertice BRICS di Johannesburg, facendo intendere che molto probabilmente i BRICS e la SCO verranno fusi. Stando così le cose, possiamo aspettarci che l’Iran e altri esportatori di petrolio e gas aderiscano.

Non solo la Russia ha accumulato la quinta più grande riserva aurea ufficiale con 2.330 tonnellate, ma può mobilitare lingotti depositati in due fondi statali che si ritiene aggiungano al totale altre 10.000 tonnellate. Inoltre la lezione di come Amburgo prosciugò il suo oro dalla Banca d’Inghilterra nel 1799 aumentando i tassi d’interesse al 17,5% dà a noi (e ai russi con tassi d’interesse simili) un indizio su come rafforzerà le sue riserve, prosciugando i mercati dei capitali occidentali della loro liquidità fisica.

Conclusione: i fondamentali dell’oro sembrano supportare pienamente la tesi tecnica del grafico presentato all’inizio di questo saggio.

[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/

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