“Denaro cattivo”: rovina della libertà, della propserità e della classe media
Sì, l’Alfa e l’Omega di quasi tutto ciò che minaccia il futuro della prosperità capitalista e della libertà costituzionale è il sistema bancario centrale. E il suo impatto negativo risale molto indietro nella storia economica, assumendo la forma di molteplici fasi e trasmutazioni mentre si trasformava nell’incarnazione malefica di oggi.
A dire il vero la Federal Reserve non era tale al momento della sua nascita la vigilia di Natale del 1913. Lo statuto originale, redatto dal grande membro del Congresso (e poi senatore) Carter Glass, in realtà ometteva — e lo faceva deliberatamente — le due caratteristiche principali che sono alla base di tutti i nostri problemi attuali: non vi era alcuna disposizione che permettesse alla neonata banca centrale della nazione di possedere, prendere in prestito, o garantire il debito pubblico; non vi era inoltre alcun mandato, o meccanismo, per inserirla nnella gestione macroeconomica, né era previsto che le 12 nuove banche regionali Federal Reserve avrebbero svolto alcun ruolo nei mercati azionari e obbligazionari.
La cosa più importante è che il nuovo sistema della Federal Reserve, anziché fungere da influenzatore dominante e centralizzato e da fissatore dei prezzi nei mercati bancari e finanziari, fu progettato per essere un price-taker (nel senso che recepiva i prezzi, piuttosto che influenzarli ndT) decentralizzato e un fornitore di liquidità di ultima istanza per le altre 12 banche regionali. Vale a dire, il gold coin standard era la base per ancorare il valore della valuta e dei depositi bancari commerciali, e il libero mercato era il forum per impostare i prezzi dei crediti, del debito, delle azioni e di altri asset finanziari.
Di conseguenza l’attuale modalità di pianificazione monetaria centralizzata e di dominio finanziario da parte di un politburo monetario composto da una dozzina di burocrati non era affatto qualcosa di voluto allora. Tutto questo è stato il prodotto dell’implacabile missione di presa di potere da parte dei funzionari statali e dei loro sostenitori in entrambi gli schieramenti politici.
In questo contesto originario, quindi, la Federal Reserve era un attore passivo anche quando si trattava di emettere credito. Invece di prendere di mira in modo proattivo l’offerta di denaro, come avrebbe consigliato Milton Friedman, o il tasso Fed Fund, come avrebbe consigliato Alan Greenspan, i funzionari della FED avevano solo il potere d’indossare berretti verdi, sedersi figurativamente dietro lo sportello di sconto di ciascuna delle 12 banche regionali e aspettare i clienti. Nel rispondere a queste richieste avrebbero dovuto valutare le garanzie presentate dalle banche membri a sostegno dei loro prestiti in termini di solidità commerciale e di prospettive di rimborso a breve termine.
Di conseguenza l’espansione, o la contrazione, del credito della Federal Reserve presso ciascuna banca regionale e per il sistema nel suo insieme sarebbe stata alimentata dal flusso e riflusso di Main Street, non dai capricci di banchieri centrali che prendono di mira variabili finanziarie o macroeconomiche. Inoltre all’epoca la carta “idonea” veniva chiamata “banconote reali”, ovvero crediti su beni già prodotti, o venduti, e solitamente dovuti per il rimborso entro 90 giorni o meno.
Se amministrata correttamente, la dottrina delle banconote reali era intrinsecamente non inflazionistica per due ragioni: in primo luogo i detentori di depositi bancari avrebbero potuto sempre convertirli su richiesta in valuta e, a sua volta, la valuta avrebbe potuto essere riscattata in oro, sempre su richiesta; in secondo luogo le garanzie commerciali che stavano alla base del nuovo credito si auto-liquidavano, cioè l’offerta era già stata creata prim’ancora che la finestra di sconto della FED coprisse il nuovo credito delle banche commerciali e la domanda incrementale che esso rappresentava.
Infatti il dollaro era doppiamente ancorato: sia all’oro che al lato dell’offerta dell’economia statunitense.
Naturalmente l’elemento chiave in questo ambiente era un prezzo di libero mercato per i depositi e i prestiti bancari. Questo era il fulcro dell’intero progetto così come lo avevano immaginato Carter Glass e i suoi consiglieri.
La critica comune alla dottrina delle banconote reali era che la banca centrale avrebbe potuto impostare il loro tasso di sconto troppo in basso, inducendo così un eccesso di domanda di prestiti da parte delle banche membri e un’espansione inflazionistica del credito commerciale. Ma tale tesi era circolare: in altre parole, se il tasso di sconto fosse stato “mobilitato” anziché “amministrato”, l’eccesso di domanda di credito avrebbe spinto i tassi d’interesse di mercato più in alto, il che, a sua volta, si sarebbe riflesso nel costo dei prestiti della FED.
Quest’ultimo sarebbe automaticamente salito insieme al mercato stesso, oltre a un differenziale di penalità superiore al tasso di sconto. Alla fine i tassi di sconto elevati determinati dal mercato avrebbero soffocato la domanda speculativa, stroncando l’inflazione sul nascere.
Inutile dire che questo schema non offriva molto spazio ai banchieri centrali, attenti all’inflazione, per inquinare il capitalismo di libero mercato.
Infatti la bellezza di quel progetto era che riuniva le virtù dell’oro, della Legge di Say e del libero mercato. Si trattava di una combinazione difficile da battere e quindi rappresentava un rimprovero strutturale ai veleni finanziari di oggi. In altre parole, il debito pubblico non era una garanzia idonea, quindi non c’era il rischio d’incoraggiare i politici ad avere deficit fiscali cronici sulla base di rendimenti artificialmente bassi sul debito pubblico.
Allo stesso modo il gioco di Wall Street di cartolarizzare il debito e creare catene di debiti su debiti su debiti non sarebbe mai decollato. Questo perché nessuno degli strumenti cartolarizzati di oggi – CLO, CDO, CDS e innumerevoli altre forme di debito “strutturato” – sarebbe stato idoneo come garanzia. Gli speculatori avrebbero quindi potuto dare la caccia ai conigli finanziari a loro piacimento, ma ciò non sarebbe stato fatto sulla base del credito a buon mercato creato dalla banca centrale. Il libero mercato sarebbe rimasto a capo della disciplina finanziaria.
Invece la tentazione di mettere da parte le solide regole monetarie di Carter Glass per finanziare la costosa e inutile avventura dell’America nella corruzione e negli intrighi politici del vecchio mondo era troppo grande da resistervi dopo che Wilson scaraventò un’America impreparata e oltre 4 milioni di ragazzini nella prima guerra mondiale. Infatti la tentazione di arruolare la neonata banca centrale americana nella conseguente esplosione della finanza di guerra fu così grande che lo sforzo fu guidato dallo stesso Carter Glass, che in qualità di Segretario del Tesoro nel 1918-1919 procedette a scontare miliardi di Liberty Bond venduti agli americani per finanziare la guerra.
Ciononostante, dopo l’epurazione del boom inflazionistico avvenuto durante la guerra, lo schema originale della FED fu in gran parte ripristinato nel 1920. Le banche regionali Federal Reserve liquidarono i loro portafogli di prestiti basati sui Liberty Bond e tornarono a una modalità di prestito con finestra di sconto orientata al mercato, anche se la FED di New York sperimentava investimenti in titoli di mercato aperto e timidi sforzi per modificare i cicli economici e commerciali.
Il livello dei prezzi alla vigilia della mobilitazione su vasta scala per la Seconda Guerra Mondiale nel gennaio 1942 era praticamente lo stesso di quello della fine della Prima Guerra Mondiale nel dicembre 1918: nonostante le distorsioni dovute ai finanziamenti della guerra prima e dopo questo periodo di 24 anni, non vi fu alcuna inflazione netta in tempo di pace. E nonostante il boom successivo dei ruggenti anni ‘20 e il crollo sulla scia della Grande Depressione, l’economia statunitense crebbe in termini di PIL reale di oltre l’80% durante il periodo sopraccitato.
Durante i primi trent’anni della sua esistenza la FED non fu inflazionistica al di fuori del finanziamento della guerra. E il PIL reale di $146 miliardi nel 1919 salì a $264 miliardi nel 1941, ovvero di quasi il 3% annuo, senza inflazione o stimoli monetari, e nonostante le devastazioni della Grande Depressione e le “cure” del New Deal che la prolungarono e l’aggravarono.
Livello dell’IPC indicizzato dal dicembre 1918 a gennaio 1942
Dopo l’inizio del 1942 gli Stati Uniti tornarono a dedicarsi pesantemente alla mobilitazione e al finanziamento della guerra, un’emergenza nazionale che comprendeva l’allocazione e il controllo totale dell’attività economica e l’impegno ancora una volta della FED nel finanziamento della guerra. A questo giro la veste di quest’ultimo fu un ancoraggio rigido dei tassi d’interesse, che andavano dallo 0,375% sui buoni del Tesoro a 90 giorni al 2,5% sui bond a lungo termine.
I residui dei finanziamenti di guerra della Seconda Guerra Mondiale non furono completamente eliminati fino al cosiddetto Accordo del Tesoro nel marzo 1951, il quale fece uscire la FED dall’attività di ancoraggio dei tassi d’interesse e di monetizzazione del debito pubblico. Poco dopo furono eliminati anche gli effetti inflazionistici della guerra di Corea e quello che seguì fu un altro periodo di politica monetaria ragionevolmente sana sotto la presidenza di William McChesney Martin.
Nello specifico, tra il quarto trimestre del 1951 e il quarto trimestre del 1967, il bilancio della FED crebbe solo del 2,0 % annuo, mentre l’IPC salì solo all’1,6% annuo. Nello stesso periodo il PIL reale aumentò di oltre l’84%, ovvero del 3,9% annuo. Ancora una volta la solidità monetaria della FED, l’inflazione molto bassa e la fiorente crescita del capitalismo di libero mercato coincidevano tutti.
Infatti la misura ultima di quest’ultimo è il PIL reale pro capite. Questa cifra crebbe di oltre il 2,3% all’anno, un livello che superava di gran lunga le cifre degli ultimi anni. Dal picco pre-crisi nel quarto trimestre del 2007, ad esempio, il PIL reale pro capite è cresciuto solo dell’1,1% annuo, ovvero appena il 48% dell’aumento del periodo 1951-1967.
PIL reale pro capite, dal 1951 al 1967
Le politiche fiscali “Guns and butter” di LBJ e i goffi tentativi della FED stessa di accomodare queste politiche sconsiderate hanno portato al disfacimento del sistema monetario di Breton Woods ancorato all’oro. Nixon, poi, non esitò a piantare un chiodo nella bara del denaro sano/onesto e da allora è partita la corsa inflazionistica.
Infatti l’attuale forma keynesiana di sistema bancario centrale avvantaggia una piccola frazione di famiglie statunitensi che possiede la maggior parte degli asset finanziari. Da quando la stampa monetaria ha registrato un’accelerazione permanente dopo il crollo delle dotcom nel 2000, l’1% più ricco ha guadagnato $20 milioni in termini di patrimonio netto aggiustato all’inflazione. Allo stesso modo, lo 0,1% delle 131.000 famiglie più ricche della scala economica ha guadagnato $88 milioni ciascuna in termini di patrimonio netto aggiustato all’inflazione.
Inutile dire che i guadagni netti della classe media provengono quasi esclusivamente da ciò che riescono a risparmiare dopo aver assorbito il costo della vita in costante aumento. Ed è implacabile. Anche se l’indice dei prezzi al consumo tende a sottostimare il costo della vita a causa dei suoi aggiustamenti edonistici e altre sciocchezze statistiche, questo indicatore imperfetto del costo della vita è ancora in aumento dell’82% dall’inizio del XX secolo.
Di conseguenza negli ultimi 22 anni il salario medio annuo reale, come rilevato dai registri delle imposte sui salari della previdenza sociale, è aumentato solo del 14,5%, ovvero appena $235 all’anno. E no, non abbiamo omesso nessuno zero da questa cifra. Questi guadagni insignificanti ammontano in media a soli $4,50 a settimana.
Se si confrontano con gli aumenti reali del patrimonio netto di quasi $1 milione e $4 milioni all’anno rispettivamente per l’1% più ricco e lo 0,1% più ricco, questi ultimi sono stati 4.250 volte maggiori dell’incremento salariale reale medio e 17.000 volte maggiori per lo 0,1% più ricco.
Inutile dire che gli aumenti fuori misura ai vertici della scala economica non sono dovuti a una crescita superiore del reddito nazionale, che, a sua volta, potrebbe riflettersi in valori capitalizzati più elevati per gli asset finanziari. La maggior parte di questi aumenti è invece attribuibile all’espansione dei multipli di valutazione, pertanto il valore netto dell’1% più ricco ammontava al 135% del PIL nel 2000, ma ora è pari al 207%. Allo stesso modo, il valore netto dello 0,1% più ricco è aumentato dal 50% all’85% del PIL durante suddetto periodo di 22 anni.
Detto in modo diverso, i valori di azioni, obbligazioni, immobili e altri asset finanziari sono aumentati vertiginosamente perché le massicce emissioni di credito a buon mercato e di liquidità in eccesso da parte della FED hanno fatto salire i loro prezzi alle stelle. E questa parte del problema può essere affrontata in modo efficace solo vietando alla FED di condurre operazioni di mercato aperto a Wall Street e di possedere o garantire il debito pubblico, come spiegherò di seguito.
E questo è solo la metà del problema. All’altra estremità della scala economica, il salario reale mediano, come menzionato sopra, è rimasto molto indietro perché le politiche inflazionistiche della FED hanno ridotto drasticamente il potere d’acquisto dei salari nazionali. Allo stesso tempo ha anche favorito una massiccia delocalizzazione della produzione di beni e servizi ad alta produttività.
In questo contesto la recente pubblicazione delle statistiche sui salari annuali per il 2022 smentisce anche l’assurda vanteria di Joe Biden riguardo i risultati economici della sua amministrazione.
Si scopre che il salario medio annuo per il 2022 era appena superiore ai $40.000 e che metà dei 172 milioni di lavoratori della nazione guadagnavano meno di tale importo. Per essere precisi, 84,5 milioni di lavoratori hanno fatto registrare redditi annuali pari o inferiori a $40.000 all’anno nel 2022, con un livello di reddito medio annuo di soli $17.900.
Proprio così. Il lavoratore medio nella metà inferiore della distribuzione salariale genera redditi che non supportano nemmeno lontanamente lo standard di vita della classe media. In realtà questa cifra corrisponde solo al 65% della soglia di povertà per una famiglia di 4 persone ($27.750) ed è appena al di sopra del livello di povertà di $14.580 per una famiglia composta da una sola persona.
In altre parole, la stragrande maggioranza degli 84,5 milioni di lavoratori nella metà inferiore della distribuzione salariale ha percepito nel corso del 2022 stipendi che erano al di sotto o poco al di sopra della soglia di povertà!
Si dà il caso che buona parte del problema sia che la stragrande maggioranza di questi 84,5 milioni di lavoratori non solo riceve redditi orari bassi, ma sperimenta anche un lavoro retribuito solo a tempo parziale o intermittente.
Ad esempio, nel 2022 sono stati registrati quasi 29 milioni di buste paga in cui i redditi totali erano inferiori a $10.000, con una media di $4.250. Anche con il salario minimo, quest’ultimo ammonterebbe a sole 566 ore di lavoro retribuito, ovvero circa il 28% di un anno lavorativo standard da 2.000 ore.
Allo stesso modo, ci sono stati quasi altri 10 milioni di lavoratori che hanno fatto registrare redditi compresi tra $10.000 e $15.000, con una media di $12.477. Anche in questo caso, ciò equivale a sole 1.650 ore di lavoro retribuito, anche al salario minimo.
Complessivamente questi 39 milioni di posti di lavoro agli ultimi livelli della scala reddituale hanno generato circa $244 miliardi in reddito salariale aggregato nel 2022; più o meno uguale ai $236 miliardi guadagnati dai 28.500 lavoratori con salari da $3,5 milioni o superiori.
Ancora una volta, il problema non è che 28.500 lavoratori hanno guadagnato molti soldi lo scorso anno, con una media di oltre $8 milioni ciascuno (presumibilmente il loro talento e il valore aggiunto sul mercato garantivano tale compensazione salariale, il vero problema è che l’economia statunitense ha fatto un pessimo lavoro nel generare opportunità di lavoro per la classe media, tanto che ci sono voluti 1.400 volte più lavoratori nella fascia più bassa del mercato del lavoro per generare la stessa quantità di reddito salariale dei lavoratori di livello più alto.
In totale, gli 84,5 milioni di lavoratori al di sotto del salario medio annuo ($40.000) hanno generato $1.510 miliardi di reddito salariale aggregato nel 2022; vale a dire, il 50% della forza lavoro occupata ha generato solo il 15% dei $10.530 miliardi di reddito salariale aggregato dichiarati dalla Social Security Administration.
Inoltre, data la pendenza verso la fascia salariale più bassa, il reddito medio del 50% più povero dei lavoratori ammonta solo ai suddetti $17.900. E ripeto, anche questo non è un errore di battitura: è il reddito salariale medio di 84,5 milioni di dipendenti statunitensi, che rappresentano una forza lavoro maggiore rispetto alla popolazione totale di Inghilterra, Francia, Italia o persino Germania.
In breve, una quota enorme della forza lavoro non appartiene più nemmeno lontanamente al reddito medio. Ciò è sottolineato dal fatto che l’altra metà della forza lavoro statunitense – gli 84,5 milioni di lavoratori con salari superiori al livello mediano – ha generato un reddito medio quasi sei volte superiore, pari a $102.000.
Perché l’economia statunitense non genera posti di lavoro a reddito medio nella misura necessaria per offrire migliori opportunità agli 84,5 milioni di lavoratori al di sotto del livello salariale medio?
La risposta breve, ovviamente, è che l’economia americana ha un disperato bisogno di molta meno speculazione a Wall Street e di investimenti molto più produttivi per Main Street – quando, in realtà, negli ultimi vent’anni è accaduto il contrario.
In altre parole, gli investimenti privati reali al netto dell’inflazione sono scesi dal 6,7% del PIL reale nel 2000 ad appena il 4,8% nel 2022. Date le temibili pressioni competitive dei mercati globali del lavoro e dei prodotti, l’economia statunitense necessita di investimenti netti a tassi ben superiori ai livelli storici.
A meno che le operazioni di mercato aperto della FED non vengano completamente interrotte in favore di un ritorno a un modus operandi basato esclusivamente su finestre di sconto, non vi è alcuna possibilità che ciò accada. Finché la FED sarà in affari fianco a fianco con gli hedge fund e gli speculatori di Wall Street, sarà loro prigioniera. Così intrappolata, continuerà a inondare i mercati finanziari con debito a buon mercato e liquidità, catalizzatori entrambi dell’eccesso speculativo.
Investimenti interni reali in percentuale del PIL reale, dal 1999 al 2022
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/
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