Ciò di cui gli USA hanno meno bisogno adesso è un taglio dei tassi

 

 

di David Stockman

Sin dal marzo 2008 lo strumento chiave della FED – il Federal fund rate – si è mantenuto su livelli negativi, se aggiustato all’inflazione, per oltre il 93% del tempo. E anche gli attuali tassi positivi riescono a malapena a superare la soglia dello zero e sono ancora molto, molto al di sotto dei livelli più sani registrati dal 1984 fino al 2000.

Tuttavia da quando il tasso di riferimento reale è diventato marginalmente positivo nel luglio 2023, il crescendo di tamburi a Wall Street per un nuovo ciclo di tagli dei tassi è diventato travolgente. Cosa diavolo c’era di così oneroso o economicamente opprimente in un tasso reale pari ad appena +1,82% a febbraio?

A sentire Wall Street si potrebbe pensare che l’economia statunitense stia per essere gettata nella fossa della recessione in assenza di una nuova tornata di tagli dei tassi, ma queste sono solo ridicole, stupide sciocchezze. L’unica ragione plausibile per tagliare i tassi dopo anni di denaro a costo negativo in termini reali è quella d’innescare e sostenere una nuova bolla nel mercato azionario già selvaggiamente gonfiato.

Si tratta di consentire agli speculatori amanti della leva finanziaria d’inseguire i prezzi delle azioni al rialzo. Infatti tassi più bassi innescherebbero l’espansione dei multipli PE riducendo allo stesso tempo il costo di finanziamento di tali posizioni tramite prestiti a margine più economici o premi di opzioni.

È davvero una situazione pietosa perché non esiste alcuna ragion di stato immaginabile che possa aiutare l’uno per cento a speculare di più e quindi inclinare ulteriormente la distribuzione della ricchezza finanziaria in cima alla scala economica.

Tasso di riferimento aggiustato all’inflazione, dal 1984 al 2024

I capi della FED e i loro scagnozzi a Wall Street insistono sul fatto che l’orrenda repressione dei tassi d’interesse mostrata qui sopra era tutta per rendere migliore la vita a Main Street: innescare livelli più elevati in investimenti aziendali, una maggiore costruzione di alloggi residenziali e un ciclo economico meno volatile.

Il problema, ovviamente, è che non esiste uno straccio di prova a sostegno di tali affermazioni.

Ad esempio, ecco un grafico del ciclo economico dal 1948 misurato dal tasso annuo di variazione del PIL reale. I minimi durante le ultime due recessioni sono stati più profondi rispetto a quelli delle 10 recessioni precedenti la Grande Crisi Finanziaria del 2007-2009. E a parte l’aberrazione del 2020, anche le riprese negli ultimi decenni sono state generalmente più deboli.

Qualche tempo fa Ben Bernanke ebbe persino il coraggio di elogiare la “Grande Moderazione” durante i suoi primi anni alla FED. Ciò implicava che, grazie agli sforzi e alle intuizioni superiori dei 12 membri del FOMC, la turbolenza storica del ciclo economico era stata completamente risolta.

Ahimè, quel discorso è stato pronunciato nel marzo 2004 e tutto ciò che si trova a destra di quella data nel grafico qui sotto suggerisce il contrario.

Tasso annuo di variazione del PIL reale, dal 1948 al 2023

Il passaggio alla dilagante stampa di denaro è iniziato con Greenspan nel 1987 e da allora è diventata progressivamente più aggressiva. A parte la famigerata bolla immobiliare di Greenspan del 2003-2006, che fu di breve durata, non c’è stato alcun aumento nella quota del PIL destinato all’edilizia residenziale. Infatti, su base uniforme, la tendenza è stata una diminuzione, e non un aumento, degli investimenti nell’edilizia residenziale.

Se l’obiettivo della politica sociale è offrire maggiori opportunità abitative ai più bisognosi, ciò può essere raggiunto attraverso sussidi diretti basati sul reddito, ad esempio sotto forma di riscatto di mutui, a costi molto inferiori e senza nessuno degli effetti collaterali negativi di tassi ipotecari artificialmente bassi.

Al contrario, i tassi d’interesse di mercato artificialmente repressi vanno a vantaggio dei ricchi, conferendo loro un valore in dollari molto maggiore che spesso utilizzano per mutui multimilionari e finanziare la loro residenza principale, per non parlare delle seconde e terze case.

Investimenti residenziali in percentuale del PIL, dal 1978 al 2023

Allo stesso tempo l’effetto collaterale dei tassi ipotecari artificialmente bassi rispetto a quelli di mercato è quello di causare un rialzo del prezzo del patrimonio immobiliare esistente, conferendo così enormi guadagni ai proprietari di case esistenti e barriere all’ingresso per le famiglie di nuova formazione che entrano nel mercato dei mutui per la prima volta.

Data la natura del patrimonio immobiliare residenziale, questo effetto collaterale è particolarmente acuto. Nel caso delle case unifamiliari, ad esempio, attualmente ci sono 86,2 milioni di unità abitative di proprietà (area arancione), ma il livello di nuove costruzioni nel trimestre più recente è stato di appena 993.000 unità su base annua (area nera).

Di conseguenza la nuova offerta ammonta solitamente solo all’1% dello stock esistente, il che significa che un sussidio attraverso gli interessi è dannatamente inefficiente se l’obiettivo è stimolare nuova offerta di alloggi.

Inoltre questa inefficienza non riguarda solo i 3,5-4,0 milioni di unità unifamiliari esistenti. L’effetto del prezzo di mercato incide sul valore di tutte le quote, in vendita o meno; e a tale inflazione del valore possono accedere i proprietari che non vendono e invece rifinanziano la loro proprietà o la usano in altro modo come garanzia.

In fin dei conti la vera questione per quanto riguarda l’edilizia residenziale è la distribuzione del reddito o il sostegno alle famiglie basato sui bisogni, non il livello di nuove costruzioni in sé. Di conseguenza il tasso ipotecario dovrebbe essere lasciato al mercato, con le risorse pubbliche incanalate esclusivamente attraverso pagamenti mirati e basati sulla verifica dei mezzi.

Nuova offerta rispetto allo stock esistente di case unifamiliari, dal 2000 al 2023

Non è neppure opportuno che i tassi d’interesse siano abbassati artificialmente per stimolare gli investimenti non residenziali o del settore commerciale. Come mostrato di seguito, i dati sugli investimenti netti delle imprese confutano completamente l’assioma del denaro facile. Mentre prima dell’era Greenspan gli investimenti netti delle imprese si aggiravano intorno al 5-7% del PIL, negli ultimi anni hanno raggiunto in media appena il 3%.

Inoltre va notato che qui stiamo utilizzando la misura aggiustata degli investimenti aziendali: nuovi investimenti al netto del consumo (ammortamento) dell’anno in corso rispetto al capitale sociale esistente. Dopotutto questo è in realtà la quantità che è disponibile dagli investimenti aziendali annuali per finanziare miglioramenti nella produttività o espansione della capacità.

Investimenti netti delle imprese in percentuale del PIL, dal 1965 al 2023

Se gli interventi iperattivi della FED e le manipolazioni dei tassi d’interesse sui mercati monetari e dei capitali non attenuano il ciclo economico (per non parlare di eliminare le recessioni), non stimolano maggiori investimenti immobiliari e non causano un aumento degli investimenti aziendali, allora gli unici macro settori rimasti sono i consumatori interni e il governo federale.

D’altra parte non c’è magia in tassi d’interesse più bassi, l’unica cosa che possono plausibilmente fare come una questione meccanica è far sì che i mutuatari accendano più debiti di quanto altrimenti accadrebbe in un libero mercato.

Perché i politici dovrebbero voler incoraggiare ancora più debito pubblico e delle famiglie nonostante i livelli altissimi già esistenti?

Nel periodo di massimo splendore della prosperità americana, nel 1955, il debito complessivo ammontava a soli $408 miliardi, pari al 99% del PIL. Alla vigilia dell’arrivo di Greenspan alla guida della FED, tali cifre erano salite lentamente, raggiungendo i $5.600 miliardi e il 117% del PIL nel secondo trimestre del 1987.

Ma dopo che la stampante monetaria è stata accesa ininterrottamente e i tassi d’interesse nominali e reali estremamente bassi sono diventati la norma, è iniziato il deragliamento: alla fine del 2023 il debito totale negli Stati Uniti ammontava a $52.700 miliardi e quasi al 190% del PIL.

Inutile dire che qualsiasi politica della banca centrale che miri esplicitamente o anche tacitamente a indurre ancora più prestiti e una leva finanziaria ancora più elevata rispetto alle entrate di governo federale e famiglie negli Stati Uniti non è nemmeno lontanamente razionale. Si tratterebbe semplicemente di un default meccanico del catechismo keynesiano, il quale sostiene erroneamente che i consumatori, i lavoratori, gli investitori, i risparmiatori e gli imprenditori che interagiscono liberamente nel mondo del commercio spendono di per sé troppo poco e risparmiano troppo.

Ahimè, questa è semplicemente dottrina statalista e non ha fondamento empirico, oltre a essere antitetica alla nozione stessa di libero mercato e libertà economica.

Debito delle famiglie e del governo federale, dal 1955 al 2023

Inutile dire che tutto il pompaggio monetario non è finito in un buco nero economico, senza lasciare traccia visibile sull’economia statunitense. Al contrario, ciò che è accaduto è stata la massiccia finanziarizzazione della vita economica americana, fenomeno che può essere misurato dal valore di mercato di tutti gli asset finanziari – azioni, obbligazioni, beni immobili – rispetto al reddito nazionale.

Infatti nel 1955 il valore di mercato degli asset finanziari delle famiglie (area nera) ammontava a $1.100 miliardi, pari al 267% del reddito nazionale (PIL). E mentre il livello in dollari è cresciuto fino a raggiungere i $12.800 miliardi nel secondo trimestre del 1987, il rapporto con il reddito nazionale è rimasto stabile.

Alla fine del 2023 gli asset finanziari totali delle famiglie (al valore di mercato) erano arrivati a quasi $119.000 miliardi e rappresentavano il 425% del PIL. Vale a dire, il tasso tendenziale di crescita economica è sceso dal 3,5% annuo prima di Greenspan ad appena l’1,5% annuo negli ultimi decenni.

Malgrado ciò un’economia più debole – gravata da $97.000 miliardi di debito totale – sta ora sfoggiando un carico di asset finanziari più elevato.

Un tempo i sostenitori di un’economia sana/onesta avrebbero definito il grafico qui sotto un castello di carte, e sicuramente lo è.

Non c’è da stupirsi se i fastidiosi piagnucoloni di Wall Street stiano disperatamente invocando un altro giro di droga monetaria.

Asset finanziari delle famiglie rispetto al PIL, dal 1955 al 2023

Tre sono gli indicatori che potrebbero segnalare un cambio di gestione dell’economia da parte della banca centrale americana, cambiamenti che la libererebbero dalla morsa degli speculatori di Wall Street e degli spendaccioni a Washington:

• Promulgazione di una moratoria su qualsiasi ulteriore acquisto da parte della FED di titoli del Tesoro americano o di debito garantito dal governo federale.

• La fine dei bailout, dei sussidi sui tassi d’interesse, delle operazioni di mercato aperto e di qualsiasi altra manipolazione di mercato a Wall Street.

• Ritorno a un modus operandi basato sulla finestra di sconto, come previsto dal mandato originale della FED, in cui le banche membri che necessitano di liquidità possono ottenere anticipi a fronte di solide garanzie commerciali e a tassi di interesse di mercato più uno spread di penalità.

Queste misure prenderebbero due piccioni con una fava. Senza la prospettiva di una FED che rastrella tutto il debito pubblico, i rendimenti obbligazionari aumenterebbero drasticamente e i guerrafondai e i grandi spendaccioni su entrambe le estremità di Pennsylvania Avenue si troverebbero finalmente ad affrontare il vero costo economico della loro dissolutezza.

Allo stesso tempo un rendimento obbligazionario nettamente più elevato metterebbe fine alla gigantesca bolla del mercato azionario che ha spostato la ricchezza verso la cima della scala economica. Dal 1989, ad esempio, il patrimonio netto dello 0,1% più ricco della popolazione è salito da $1.800 miliardi a poco meno di $20.000 miliardi. Si tratta di un guadagno di $138 milioni a famiglia.

Al contrario, il patrimonio netto aggregato del 50% più povero, ovvero 66 milioni di famiglie, è aumentato da $700 miliardi a $3.600 miliardi. Si tratta di un guadagno di soli $44.000 a famiglia.

Di conseguenza ognuno nello 0,1% più ricco ha guadagnato 3.100 volte più patrimonio netto rispetto alla metà più povera delle famiglie americane. E questo risultato sbilanciato non è dovuto al fatto che lo 0,1% più ricco fosse molto più ricco fin dall’inizio.

Infatti nel 1989 il patrimonio netto aggregato dello 0,1% più ricco era 2,45 volte quello del 50% più povero, ma nel terzo trimestre del 2023 era cresciuto fino a 5,45 volte. Questo cambiamento non aveva assolutamente nulla a che fare con il merito, l’abilità negli investimenti o il contributo alla vita economica americana; era semplicemente un prodotto dell’inflazione degli asset finanziari e della pronta capacità dei più ricchi di speculare con una leva finanziaria a basso costo, fenomeni entrambi alimentati dalla FED.

In breve, il drastico ampliamento del divario di ricchezza illustrato nel grafico qui sotto non è stato il risultato naturale del capitalismo di libero mercato che funziona sulla base del denaro sano/onesto. È stato invece il prodotto della dilagante stampa di denaro da parte della banca centrale americana, un’istituzione statale che era stata infiltrata da Wall Street.

Patrimonio netto dello 0,1% più ricco rispetto al 50% più povero, dal 1989 al 2023

Negli ultimi decenni la scusa della FED è stata o che l’inflazione non stava raggiungendo l’obiettivo del 2,00% dal basso o che eventuali riacutizzazioni temporanee della stessa erano transitorie e sarebbero presto rientrate nell’intervallo obiettivo. Di conseguenza non ha mai smesso di stampare credito fiat, aumentando il suo bilancio da $200 miliardi nel 1987 a $9.000 miliardi al picco nel 2022. Tale aumento di 45 volte ha ampiamente superato l’aumento di 5 volte, invece, del reddito nazionale (PIL) durante lo stesso periodo.

Già questo rapporto asimmetrico indica che la stampante monetaria della FED dovrà essere messa a tacere per un bel po’ di tempo. Ma ecco il punto: non c’è l’ombra di una prova che l’inflazione al 2,00% vada a beneficio dell’economia di Main Street o delle famiglie a reddito medio e basso. Come abbiamo ripetutamente dimostrato, i tassi di crescita economica reale, i livelli d’investimento, gli aumenti di produttività e gli standard di vita della classe media hanno tutti vacillato rispetto alle tendenze storiche da quando la FED ha iniziato a stampare pesantemente durante l’era Greenspan.

Ma ciò che un’inflazione pari o superiore al 2,00% in realtà fa è distruggere i magri risparmi delle famiglie di Main Street, che non possono permettersi di lanciare i dadi a Wall Street o investire in rischiose obbligazioni spazzatura, immobili cartolarizzati o altri asset ad alto rendimento. Di conseguenza anche se il patrimonio netto dello 0,1% più ricco è aumentato del 1.000% tra il terzo trimestre del 1989 e il terzo trimestre del 2023, il valore di un dollaro risparmiato da un consumatore medio nel 1989 valeva solo 41 centesimi alla fine di suddetto periodo di 34 anni.

Detto in modo diverso, la politica pro-inflazione della FED devasta la classe media e i salariati medi, anche se pompa enormi quantità di liquidità a basso costo nelle bische di Wall Street.

Deprezzamento del dollaro dal terzo trimestre del 1989

Ciò che i dottorandi che spacciano un obiettivo d’inflazione al 2,00% ignorano sempre è che l’inflazione è cumulativa e non vi è alcuna garanzia che lo stipendio di un particolare lavoratore manterrà il passo.

Ad esempio, ecco il salario medio nel settore manifatturiero (linea rossa tratteggiata) dal terzo trimestre del 1989 rispetto ai costi di cibo, energia e immobili.

Direi porprio che tutta questa inflazione non è stata esattamente un affare per il lavoratore medio nel settore manifatturiero, sempre che sia riuscito a mantenere il proprio lavoro. In realtà oggi ci sono 5 milioni di posti di lavoro ben retribuiti nel settore manifatturiero in meno rispetto a 34 anni fa.

In tal periodo la retribuzione oraria media dei lavoratori nel settore manifatturiero non è riuscita a tenere il passo con nessuna delle principali voci del costo della vita.

Variazione % cumulativa tra il terzo trimestre del 1989 e il terzo trimestre del 2023:

• Retribuzione oraria dei lavoratori nel settore manifatturiero: +156%

• IPC cibo: +157%

• IPC immobili: +188%

• IPC energia: +211%

In breve, l’inflazione non è un affare per i lavoratori salariati. L’intera idea di prendere di mira qualcosa di diverso dalla stabilità dei prezzi equivale a gergo accademico malcelato progettato per offuscare il vero obiettivo: generare ricchezza a Wall Street a partire dall’erronea nozione greenspaniana secondo cui “effetti ricchezza” e “riflusso verso il basso” sono un vantaggio per Main Street.

Ma quando si confronta il grafico qui sotto con i guadagni netti mostrati nel grafico sopra, le prove gridano piuttosto forte: l’inflazione è un pessimo affare per Main Street e una manna del tutto ingiustificata e ingiusta per Wall Street.

Variazione del salario medio nel settore manifatturiero rispetto all’indice dei prezzi al consumo per cibo, casa ed energia, dal terzo trimestre del 1989 al terzo trimestre del 2023

In secondo luogo, si affermerà che rendimenti obbligazionari significativamente più alti causeranno un aumento proporzionale dei tassi ipotecari, a scapito della classe media.

Sì e no. Secondo gli attuali dati governativi, il mutuo medio negli Stati Uniti è di $89.643, ma in questo caso la media non ci dice quasi nulla.

Come mostrato di seguito, il mutuo medio detenuto dal 20% più povero delle famiglie ammonta a meno di $15.000, mentre quello per il 50° percentile è di circa $55.000 e quello del 99° percentile è di $524.000. Quindi i benefici in dollari derivanti dai tassi ipotecari artificialmente bassi vanno in gran parte alle famiglie più benestanti.

Inoltr, se il governo federale vuole aiutare le famiglie a reddito medio per quanto riguarda i mutui, allora la soluzione non è quella di sovvenzionare quelli dei ricchi sopprimendo artificialmente i tassi d’interesse, ma di fornire trasferimenti mirati alle famiglie all’estremità inferiore della scala dei redditi. Un meccanismo per raggiungere questo obiettivo sarebbe una riduzione del tasso d’interesse ipotecario per chi acquista una casa per la prima volta.

Infine si sosterrà che una moratoria estesa sugli acquisti da parte della FED di debito pubblico o delle agenzie governative lascerà il sistema finanziario a secco in caso di crisi di liquidità.

Ma questa è la peggiore affermazione fasulla tra le tante. Se vogliamo una rottura radicale dall’abietta servitù della FED nei confronti di Wall Street, la risposta è chiudere il FOMC (Federal Open Market Committee) e far uscire completamente le operazioni della banca centrale dai canyon di Wall Street.

Infatti i primi ideatori della FED, guidati dal grande Carter Glass, fecero di tutto per mantenere la banca centrale il più lontano possibile da Wall Street. Ecco perché avevano previsto che la FED operasse attraverso 12 finestre di sconto regionali, dove le banche commerciali membri in ciascuna regione potevano ottenere prestiti, ma solo sulla base di solide garanzie commerciali e a un tasso d’interesse di mercato più uno spread di penalità.

Oggi il sistema bancario commerciale detiene più di $12.000 miliardi in prestiti e leasing, esclusi il debito del Tesoro statunitense e i titoli delle agenzie governative. Si tratta di una garanzia più che sufficiente per soddisfare qualsiasi rigore finanziario; inoltre cosa c’è di sbagliato nel richiedere alle banche di pagare tassi d’interesse di mercato più, diciamo, una penalità di 200 punti base qualora volessero usare il credito della banca centrale? Proprio niente.

[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/

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