La facciata economica della Cina sta cadendo a pezzi
di Samuel Gregg
Non molto tempo fa i commentatori di tutto lo spettro politico ci avvertivano che l’economia cinese era destinata a superare quella americana. Gli Stati Uniti avevano bisogno, affermava un senatore, di “una politica industriale filoamericana per il XXI secolo” per scongiurare questa minaccia esistenziale.
Tale retorica ricordava la fine degli anni ’80, quando una serie di libri avvertivano gli americani che, a meno che gli Stati Uniti non adottassero una politica industriale di tipo giapponese (intervento del governo che sposta risorse verso un particolare settore o industria), erano destinati a essere superati economicamente da un Paese che l’America aveva schiacciato militarmente quattro decenni prima.
Nel 1990 l’economia giapponese entrò nel suo “decennio perduto” di stagnazione economica. Sebbene ciò fosse dovuto in gran parte a una politica monetaria a dir poco imperfetta, è stato anche il risultato di estesi interventi statali nell’economia giapponese attraverso la politica industriale: un punto ammesso niente meno che dal Ministero delle finanze giapponese nel 2002.
Modelli simili potrebbero manifestarsi oggi in Cina. L’economia cinese è definitivamente spenta e molti dei dilemmi economici di Pechino sono il risultato delle politiche dirigiste del regime comunista.
La più grande bomba a orologeria che Pechino deve affrontare è il disastro demografico. Grazie alla politica del figlio unico perseguita tra il 1980 e il 2016, la Cina si trova ora ad affrontare tutte le complicazioni legate a una piramide demografica rovesciata in cui una popolazione sempre più anziana è affiancata da un bacino di giovani sempre più ristretto.
Ciò significa una spesa sempre più accelerata per le pensioni, lo stato sociale e l’assistenza sanitaria, che eliminerà costantemente gli investimenti in cose come ricerca/sviluppo, infrastrutture e difesa. Non c’è da stupirsi se Pechino ora stia esortando le famiglie ad avere tre figli. Il problema è che, una volta stabiliti i modelli demografici, è difficile modificarli. Di conseguenza, come osserva lo studioso di politica estera Ryan Hass, la Cina ora “rischia d’invecchiare prima’ancora di arricchirsi”.
La demografia non è l’unica sfida che la Cina deve affrontare. Il Paese sta raccogliendo i frutti degli ultimi 15 anni di decisioni di politica economica sempre più incentrate sullo stato.
Prendiamo, ad esempio, la tanto pubblicizzata Belt-and-Road Initiative (BRI). Dal 2013 Pechino ha cercato di promuovere e investire sistematicamente in progetti infrastrutturali in tutto il mondo, in particolare nei Paesi che la Cina considera geopoliticamente significativi.
Fin dal suo inizio la BRI è stata caratterizzata da costi fuori controllo, tanto che, già nel 2015, le banche cinesi gestite dallo stato hanno iniziato a ridurvi la loro esposizione mentre le banche commerciali hanno cercato di evitarla del tutto. Ci sono anche prove che la BRI è stata a lungo segnata dalla corruzione da parte dei funzionari responsabili della sua gestione.
Tali problemi erano prevedibili quando c’è lo stato che gioca un ruolo pesante nel dirigere gli investimenti – un processo che ha subito una costante accelerazione in Cina dopo che Xi Jinping è salito al potere nel 2012. Ciò ha prodotto diffuse allocazioni errate di capitale in tutta l’economia, come risultato di banche controllate dallo stato che concedevano prestiti a imprese statali inefficienti e zombi.
Funzionari statali cinesi hanno persino riconosciuto che Pechino ha sprecato come minimo $6.000 miliardi in investimenti infruttuosi tra il 2009 e il 2014. Ciò non sorprende dato che la relazione di consultazione dell’Articolo IV del 2021 dell’FMI sulla Cina ha concluso che le imprese cinesi di proprietà statale erano, in media, solo l’80% produttive rispetto alle aziende private. Ciò, afferma sempre tale relazione, ha svolto un ruolo significativo nel continuo declino della produttività della Cina a partire dalla fine degli anni 2000.
Un problema correlato è l’uso aggressivo della politica industriale, soprattutto a partire dall’inizio degli anni 2010, sotto forma di sussidi, investimenti statali diretti e prestiti a basso costo. L’obiettivo era quello di cercare di sostenere la crescita in settori come la produzione avanzata, la tecnologia, il settore dei servizi, le infrastrutture e l’agricoltura.
Naturalmente se investite abbastanza denaro in un dato settore economico, otterrete dei risultati. Un’analisi approfondita di Scott Lincicome e Huan Zhu riguardo la politica industriale in Cina mostra enormi fallimenti in settori come i semiconduttori, le tecnologie 3G, gli aerei nazionali e la produzione automobilistica. Le stesse linee di politica hanno anche contribuito a far crescere la corruzione in molti settori economici, compreso il settore della ricerca/sviluppo, altamente sovvenzionato.
Queste e altre tendenze innervosiscono gli investitori esteri e ciò ci porta a un altro problema che i politici cinesi devono affrontare.
Gli investimenti esteri in entrata in Cina sono in calo ormai da due anni consecutivi: ora sono al livello più basso sin dal 1993. Questo sviluppo riflette una relazione complessa, dalle tensioni commerciali al disagio riguardo le intenzioni di Pechino nei confronti di Taiwan.
Alla base di questa flessione negli investimenti esteri c’è anche la diminuzione della fiducia tra i leader imprenditoriali esteri riguardo le future prospettive economiche della Cina. La Camera di Commercio dell’Unione Europea nel suo Business Confidence Survey del 2023 sulla fiducia delle imprese in Cina, ad esempio, ha rimarcato “un significativo deterioramento del sentiment delle imprese”. Più specificamente “il 64% degli intervistati ha riferito che fare affari in Cina è diventato più difficile nell’ultimo anno, il tasso più alto mai registrato; l’11% degli intervistati ha spostato gli investimenti fuori dalla Cina; l’8% ha deciso di spostare altrove gli investimenti futuri precedentemente pianificati per la Cina; e uno su dieci riferisce di aver già spostato, o di pianificare di spostare, la propria sede centrale asiatica (HQ) o il quartier generale della business unit fuori dalla Cina continentale”.
“Le incertezze nel contesto politico cinese”, secondo suddetta indagine, sono state fondamentali per questo deterioramento della fiducia. Le imprese straniere temono la crescente ambiguità su ciò che Pechino consentirà di fare alle imprese estere in Cina. Questa incertezza è stata sicuramente esacerbata dal fatto che l’Ufficio nazionale di statistica cinese sta diventando progressivamente più selettivo riguardo ai dati economici da rilasciare e ritarda regolarmente la pubblicazione di altri dati rilevanti. Nell’agosto 2023 la Cina ha smesso di rilasciare informazioni sul tasso di disoccupazione giovanile.
Queste tendenze indicano che la Cina sta per cadere in una stagnazione come quella giapponese degli anni ’90? È troppo presto per dirlo. Indicano, tuttavia, che i politici americani – indipendentemente dal fatto che il loro focus sia la sicurezza nazionale o il commercio – dovrebbero ricalibrare il loro approccio nei confronti di Pechino ed evitare di rimanere bloccati in una narrazione che presuppone che la Cina sia un colosso economico inarrestabile. In parole povere, le prove suggeriscono il contrario.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/
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