La depressione inflazionistica è già qui?
di Jeffrey Tucker & Peter St. Onge
C’era un messaggio indiretto sepolto in un articolo del New York Times sulla crisi degli immobili commerciali nelle città. Sì, questo è esattamente il tipo di articolo che le persone trascurano perché a prima vista sembra che non abbia un impatto diffuso nella vita reale. E invece sì, influisce su questioni come l’orizzonte delle nostre città, il modo in cui pensiamo all’urbanistica e al progresso, dove andiamo in vacanza e lavoriamo, e se le grandi città sono fattori trainanti o drenano la produttività nazionale.
L’articolo menziona “un’emergenza che si annida nel mercato immobiliare commerciale, il quale sta soffrendo a causa dei tassi d’interesse alti, che rendono più difficile il rifinanziamento dei prestiti, e dei tassi di occupazione bassi degli edifici adibiti a uffici – un risultato della pandemia”.
Siamo abituati a questo tipo di linguaggio che incolpa la crisi sanitaria per i risultati dei lockdown. Naturalmente è stata una decisione presa dagli esseri umani quella di trasformare un virus in una scusa per chiudere il mondo. I lockdown hanno fatto saltare in aria tutti i dati economici, generando grafici altalenanti su ogni indicatore mai visti nella storia industriale. Inoltre hanno reso estremamente difficile il confronto prima/dopo.
Le conseguenze avranno un’eco a lungo nel futuro. I tassi d’interesse alti sono il risultato del tentativo di rallentare il rubinetto monetario aperto nel marzo 2020, in cui più di $6.000 miliardi in nuova liquidità sono apparsi dal nulla e sono stati distribuiti dai proverbiali elicotteri.
Che fine ha fatto l’iniezione di denaro? Ha generato inflazione. Quanto? Purtroppo non lo sappiamo. Il Bureau of Labor Statistics non riesce a tenere il passo, in parte perché l’indice dei prezzi al consumo non calcola quanto segue: interessi su qualsiasi cosa, tasse, affitti, assicurazione sanitaria (accuratamente), assicurazione per i proprietari di case, assicurazione automobilistica, servizi governativi come scuole pubbliche, calo della quantità di prodotto a prezzi invariati, cali di qualità, sostituzioni dovute al prezzo o costi di servizio aggiuntivi.
Tutte queste sono sole alcune delle cose che sono salite di prezzo ed è per questo che i dati su particolari settori mostrano un enorme divario (generi alimentari in aumento del 35% in quattro anni) e perché ShadowStats stima un’inflazione a doppia cifra da due anni a questa parte, avendo raggiunto il picco del 17%. Se si aggiungono gli interessi, un documento dell’NBER stima l’inflazione del 2023 al 19%.
Vari studi hanno dimostrato che dal 2019 i prezzi dei fast food – uno standard di riferimento nei mercati finanziari per misurare l’inflazione reale – hanno superato l’IPC ufficiale tra il 25% e il 50%.
Sbagliare i dati sull’inflazione è solo l’inizio del problema. Siamo fortunati se qualche dato governativo si adegua anche ai numeri sbagliati. Prendiamo in considerazione le vendite al dettaglio. Supponiamo che abbiate comprato un hamburger l’anno scorso a $10 e ne avete comprato uno questa settimana a $15. Direste che la vostra spesa al dettaglio è aumentata del 50%? No, avete semplicemente speso di più per la stessa cosa. Beh, indovinate un po’? Tutte le vendite al dettaglio vengono calcolate in questo modo.
È lo stesso con gli ordini di fabbrica. Siete voi a dover effettuare gli aggiustamenti all’inflazione. Anche l’utilizzo dei dati convenzionali, che sono ampiamente sottostimati, cancellano tutti i progressi degli ultimi anni. EJ Antoni è uno dei pochi economisti che tiene il passo con queste cose e ha costruito i due grafici seguenti.
“Si tratta di ordini di fabbrica prima e dopo l’aggiustamento all’inflazione: quello che sembra un aumento del 21,1% da gennaio ’21 a marzo ’24 è solo un aumento dell’1,8% – il resto è solo prezzi più alti, non più cose fisiche; peggio ancora, gli ordini reali sono diminuiti del 6,9% rispetto al picco raggiunto nel giugno ’22”.
Immaginate gli stessi grafici ma con aggiustamenti più realistici. Avete capito? I dati diffusi quotidianamente dalla stampa generalista sono falsi. E immaginate gli stessi grafici sopra aggiustati all’inflazione a doppia cifra come dovrebbe essere. Abbiamo un problema serio.
I guai con i dati sull’occupazione stanno diventando sempre più noti. In sostanza, i dati che vengono normalmente riportati sono conteggiati due volte o semplicemente imprecisi, e c’è un’enorme divergenza con l’altro metodo di conteggio dei lavori tramite indagini sulle famiglie. EJ offre ancora una volta il suo commento su questo aspetto.
Inoltre né il rapporto lavoratori/popolazione, né il tasso di partecipazione al lavoro sono tornati ai livelli pre-lockdown.
Prendiamo ora in considerazione il PIL. Nella vecchia formula elaborata negli anni ’30 la spesa pubblica aumenta il PIL, mentre i tagli a essa lo fanno diminuire, proprio come le esportazioni ne gonfiano i numeri e le importazioni li sgonfiano. Perché? È una vecchia teoria radicata in una sorta di keynesiano/mercantilismo che nessuno sembra mai cambiare, ma la distorsione è profonda in questi giorni con una spesa pubblica fuori controllo.
Per calcolare se e in che misura siamo in recessione, guardiamo non al PIL nominale ma al PIL reale; cioè aggiustato all’inflazione. Due trimestri in ribasso sono considerati recessione. Cosa accadrebbe se aggiustassimo i numeri della produzione, erroneamente stimati, attraverso una comprensione realistica dell’inflazione negli ultimi anni?
Non abbiamo i numeri precisi, ma calcoli a spanne suggeriscono che non siamo mai usciti dalla recessione del marzo 2020 e che tutto è andato gradualmente peggiorando.
Ciò si adatta a ogni singolo sondaggio sulla fiducia dei consumatori, soprattutto perché le persone stesse sono osservatori della realtà migliori rispetto ai raccoglitori di dati e agli statistici del governo.
Finora ci siamo occupati brevemente di inflazione, produzione, vendite e produzione, e abbiamo scoperto che nessuno dei dati ufficiali è affidabile. Un errore si ripercuote negativamente sugli altri, come aggiustare la produzione all’inflazione o le vendite all’aumento dei prezzi. I dati sull’occupazione sono particolarmente problematici a causa del problema del doppio conteggio.
Che dire sulle finanze delle famiglie? L’inversione dei tassi di risparmio e del debito delle carte di credito vi dice tutto quello che dovete sapere.
Quando sommate tutto, avete la strana sensazione che nulla di ciò che ci viene detto è reale. Secondo i dati ufficiali negli ultimi quattro anni il dollaro ha perso circa 23 centesimi in potere d’acquisto. A questo non ci crede assolutamente nessuno. A seconda di cosa spendete effettivamente, la risposta reale è più vicina a 35 centesimi, o 50 centesimi, o anche 75 centesimi… se non di più. Non sappiamo ciò che non possiamo sapere.
Non ci resta che fare ipotesi. E questo si combina con la realtà che non è solo un problema degli Stati Uniti. L’aumento dell’inflazione e il calo della produzione sono globali. Potremmo chiamarla recessione inflazionistica, o depressione inflazionistica, in tutto il mondo.
La maggior parte dei modelli economici utilizzati negli anni ’70, e ancora oggi, postulano che esiste un compromesso permanente tra la produzione (con l’occupazione come proxy) e l’inflazione, in modo tale che quando uno è al rialzo, l’altro è al ribasso (Curva di Phillips).
Ora ci troviamo di fronte a una situazione in cui i dati sull’occupazione sono profondamente influenzati da sondaggi inadeguati e dall’abbandono del lavoro, i dati sulla produzione sono distorti da livelli fuori scala di spesa pubblica e di debito, e nessuno tenta nemmeno più di fornire una contabilità realistica dell’inflazione.
Cosa diavolo sta succedendo veramente? Viviamo in tempi ossessionati dai dati con capacità apparentemente magiche di far conoscere e calcolare tutto. Eppure anche adesso sembriamo più ciechi che mai. La differenza è che oggigiorno dovremmo fidarci di dati che nessuno crede nemmeno siano reali.
Tornando alla crisi immobiliare commerciale citata nell’articolo del New York Times, le grandi banche non avrebbero nemmeno parlato con i giornalisti che stavano scrivendo la storia. Questo dovrebbe suggerirvi qualcosa…
Viviamo in un’economia “non chiedere, non dire”. Nessuno vuole parlare di inflazione elevata, nessuno vuole parlare di depressione economica. Soprattutto nessuno vuole ammettere mai la verità: il punto di svolta nelle nostre vite e l’evento che ha fatto precipitare le cose è stato il lockdown. Tutto il resto è stato una conseguenza.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/
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