Costo della vita fuori controllo e bias di conferma sull’inflazione (dei prezzi)

Costo della vita fuori controllo e bias di conferma sull’inflazione (dei prezzi)

 

 

di David Stockman

L’economia statunitense ha bisogno di un sollievo maggiore di fronte al recente impatto inflazionistico rispetto al tasso di rallentamento stimato dalla FED nell’aumento del livello dei prezzi nell’anno a venire. Dopo tutto, ecco l’aumento del costo principale dei beni di consumo da gennaio 2017.

Variazione delle componenti fondamentali del costo della vita da gennaio 2017:

• Cibo: +32%

• Immobili: +34%

• Energia: +35%

• Servizi di trasporto: +36%

Nel caso dei risparmiatori, dei pensionati e dei lavoratori dipendenti i cui i salari non hanno tenuto il passo con l’indice dei prezzi al consumo, la punizione di cui sopra non è sufficiente? Non si tratta, in realtà, di un’espropriazione da parte dello stato del loro tenore di vita e della modesta ricchezza da loro accumulata?

In ogni caso, cosa diavolo c’è di così urgente nei tagli dei tassi quando l’economia è ancora in rapida crescita e l’inflazione cumulativa degli ultimi sette anni non è stata minimamente alleviata?

Aumento delle principali componenti del costo della vita nell’IPC da gennaio 2017

L’affermazione secondo cui i tagli dei tassi aumenteranno il tasso di crescita della produzione, dell’occupazione, degli investimenti e della spesa per Main Street non regge. Tassi d’interesse artificialmente bassi alimentano l’indebitamento per la speculazione e l’ingegneria finanziaria (ad esempio, riacquisti di azioni proprie) a Wall Street, non l’indebitamento per investimenti produttivi o anche per un maggiore “consumo” da parte del settore delle famiglie, che ora è sepolto nel debito dopo decenni di denaro facile.

Infatti l’unico modo in cui quest’ultimo induce le famiglie a spendere più del tasso di crescita dei loro redditi è se queste aumentano costantemente il loro rapporto debito/reddito. Ciò alimenta prestiti incrementali, che a loro volta possono integrare la spesa derivante dal reddito corrente.

E questo è esattamente quello che è successo nel mezzo secolo che ha preceduto la grande crisi finanziaria. Il rapporto debito/reddito delle famiglie era pari al 70% nel 1960, ma da allora in poi è schizzato alle stelle, soprattutto dopo che Greenspan ha aperto i rubinetti della FED dopo il 1987. Nel primo trimestre del 2009 il rapporto di leva delle famiglie era pari al 227% (area viola) ed è stato proprio questo massiccio aumento a incidere sulla spesa delle famiglie durante l’intervallo di tempo.

Dal primo trimestre del 2009 il settore delle famiglie ha registrato una lenta ma costante riduzione dell’indebitamento, con un rapporto ora sceso al 166% a partire dal quarto trimestre del 2023. Ciò significa che il magico elisir dello “stimolo monetario” non funziona più in questo settore.

Esplosione dell’indebitamento delle famiglie nel periodo 1960-2009 e deleveraging sin da allora

Per quanto riguarda la fandonia della crescita dal lato dell’offerta, non si può negare che la quantità di stimoli monetari sia stata fuori scala rispetto a tutta la storia precedente. Infatti il bilancio della FED, pari a $7.500 miliardi, è ancora più di 8 volte il livello pre-crisi del quarto trimestre del 2007.

Tuttavia, quando si tratta della crescita reale della produzione a valore aggiunto durante il periodo di sei anni dal primo trimestre del 2018 al quarto trimestre del 2023, il grafico seguente vi dice tutto ciò che dovete sapere. In altre parole, la produzione a valore aggiunto reale nel settore sanitario, dell’istruzione e dell’assistenza sociale è cresciuta a un tasso annuo del 2,71%, pari a 3 volte il tasso di crescita reale dello 0,90% del settore della produzione di beni non durevoli.

Tale settore non ha bisogno di soldi facili o di tassi d’interesse ultra bassi per crescere. La domanda nel settore della sanità, dell’istruzione e dell’assistenza sociale è finanziata in larga parte da trasferimenti fiscali governativi, compresi i sussidi impliciti nelle detrazioni e nelle preferenze per l’assistenza medica del codice IRS.

Infatti la linea rossa nel grafico qui sotto rappresenta il settore in più rapida crescita dell’economia statunitense durante suddetto periodo di sei anni, ma oserei dire che non è dipeso dai bassi tassi d’interesse bensì dai diritti legali e da disposizioni del codice fiscale di lunga data, i quali generano essenzialmente lo stesso livello di domanda e di produzione indipendentemente dal fatto che il tasso di riferimento statunitense sia all’1% o al 7%.

Allo stesso tempo è altamente improbabile che un ritorno a tassi bassi possa fare molto per i tassi di crescita moribondi dell’economia industriale, come qui rappresentato dal valore aggiunto reale nei settori dei beni non durevoli. Molto tempo fa gran parte della produzione statunitense di scarpe, camicie, lenzuola, articoli per la casa e simili veniva delocalizzata all’estero in luoghi a basso costo. E bloccare gli attuali livelli gonfiati dei costi interni più un altro 2-3% annuo in futuro non li riporterà indietro.

In sintesi, il modo in cui la FED giocherella con i tassi d’interesse è in gran parte irrilevante per il percorso dal lato dell’offerta dei due settori mostrati di seguito e di innumerevoli altri proprio come loro.

Valore aggiunto reale: il settore dell’istruzione, della sanità e
dei servizi rispetto ai beni durevoli, dal 2018 al 2023

Infine è ridicolo affermare che la FED debba tagliare i tassi per stabilizzare i mercati finanziari e compensare la presunta volatilità intrinseca del libero mercato

Ma per favore!

Ognuna delle principali recessioni e crisi nei mercati finanziari degli ultimi sessant’anni è stata causata dallo stato e dalle macchinazioni della sua banca centrale. L’idea stessa che esista un terzo mandato implicito chiamato “stabilità finanziaria” (dopo il controllo dell’inflazione e la piena occupazione) è ridicola. Mi fa venire in mente il giovane che uccide entrambi i genitori e poi si affida alla clemenza della corte perché è orfano!

Tagliare drasticamente i tassi in qualsiasi momento quest’anno, o in futuro, equivarrebbe a un crimine finanziario. Dopo solo una breve permanenza di circa otto mesi a malapena in territorio positivo (area viola) dal luglio 2023, i tassi reali o aggiustati all’inflazione tornerebbero al di sotto dello zero, dove sono rimasti in modo distruttivo per gran parte degli ultimi decenni.

Naturalmente questo sviluppo sarebbe accolto con grande favore sia dagli speculatori di Wall Street che dai guerrafondai e dagli spendaccioni di Washington. Ed è proprio questo il motivo per cui non dovrebbe essere fatto.

Tasso di riferimento statunitense aggiustato all’inflazione, dal 2001 al 2024

Una volta che scoppia un’inflazione elevata in tempo di pace, gli economisti mainstream, sconcertati, abbracciano l’idea che la banca centrale debba promuovere una cura delicata e graduale “accomodando” una parte significativa del crescente livello dei prezzi per timore che una crescita troppo tirata del credito farebbe salire i tassi d’interesse reali e metterebbe in ginocchio l’economia.

L’effetto di questa sfortunata ipotesi è stata l’introduzione della gestione del tasso d’inflazione nel mandato, negli strumenti e nel vocabolario della FED. Anche se l’“obiettivo” ufficiale al 2% non si è concretizzato se non decenni dopo, è entrato in vigore de facto durante la presidenza Volcker e dei suoi successori. Alla fine l’idea che la FED non gestisse le riserve bancarie e il credito, ma fosse responsabile della performance dell’intero PIL, compreso il tasso di aumento del livello generale dei prezzi, è diventata profondamente radicata nell’istituzione.

A dire il vero Paul Volcker era estremamente cauto nel gestire l’inflazione e nel ridurre deliberatamente il tasso di aumento dei prezzi, ma in fondo era anche un buon uomo d’affari. Era disposto ad accogliere l’inflazione solo in misura limitata ed era pronto a rischiare una contrazione economica se ciò fosse stato necessario per spezzare la schiena alla speculazione finanziaria e alla spirale salari/prezzi/costi che si era instaurata durante gli anni ’70.

Infatti questo è ciò che è accaduto e la profonda recessione del 1981-1982 accelerò il ritmo della disinflazione. Dal picco annuo del 14,6% nel marzo 1980, l’aumento dell’IPC rallentò bruscamente fino ad appena il 2,36% nel luglio 1983.

A quel punto Volcker era riluttante a perorare la causa del concetto di stabilità dei prezzi, anche se era costretto a fare i conti con il cowboy texano (cioè James Baker) che aveva preso il comando del Tesoro durante il secondo mandato di Reagan. Questi ultimi imposero l’abominio degli Accordi del Plaza nel 1985, una manovra “coordinata” e/o imposta a livello globale per distruggere il dollaro forte, importando così nuovamente pressioni inflazionistiche nell’economia statunitense.

In ogni caso, il tasso di inflazione annuo toccò il minimo all’1,91% nel febbraio 1987 e quello stesso mese Howard Baker divenne capo dello staff della Casa Bianca. Da quel momento in poi i due Baker – James e Howard, entrambi amanti del denaro facile – gestirono di fatto una reggenza del Partito rpubblicano alla Casa Bianca. Così facendo non avrebbero permesso che l’indipendente Volcker ostacolasse il successo elettorale repubblicano.

Una volta fuori Paul Volcker, il suo successore, Alan Greenspan, si trovò presto ad affrontare il famigerato crollo del mercato azionario il 19 ottobre 1987. Successivamente l’ex-sostenitore del gold standard e discepolo di Ayn Rand aprì i rubinetti monetari della FED avviando così una nuova ondata di pressione inflazionistica durante gli ultimi anni degli anni ’80.

Come risulta evidente dal grafico qui sotto, la vittoria parziale di Volcker sull’inflazione ebbe un cortocircuito dopo la metà del 1983. Nel complesso il livello dei prezzi aumentò del 71%, o del 3,3% annuo, durante il successivo crollo del mercato azionario, quando il NASDAQ crollò del 33% durante 30 giorni di negoziazione nel marzo/aprile 2000.

Variazione IPC annua, dal marzo 1980 al marzo 2000

Questa capitolazione verso un’inflazione permanente e residua nella zona del 2-4% è stato un enorme errore storico. Ha aperto la strada agli “effetti ricchezza” greenspaniani e alle conseguenti aberrazioni economiche: un’economia malconcia che ha dato il via alla massiccia delocalizzazione dell’industria americana, oltre all’implacabile inflazione degli asset finanziari che ha inondato Wall Street con enormi quantità di ricchezza immeritata.

Il fattore scatenante di questo inaspettato crollo è stato l’errore fondamentale di Greenspan: ha inventato l’argomentazione spuria secondo cui un’inflazione al 2-3% era sufficiente, quando l’esigenza effettiva era quella di eliminare la struttura inflazionistica dei costi che era già radicata nell’economia statunitense a causa della follia inflazionistica degli anni ’70.

L’eredità di Greenspan non è stato altro che un gigantesco disastro inflazionistico: pianificazione monetaria centrale e obiettivi pro-inflazione da parte della banca centrale. Basti ricordare perché un’enorme quota delle merci americane proviene ora dalla Cina e da altre parti della catena di fornitura globale a basso salario. In altre parole, la FED ha semplicemente inflazionato i costi unitari dei lavoratori americani, i quali sono diventati sempre meno competitivi sui mercati globali.

Crescita del costo unitario del lavoro negli Stati Uniti, dal 1970 al 2024

[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/

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