Il caos stagflazionistico dell’America

Il saggio di oggi di Stockman, oltre a tracciare un filo conduttore per capire come la stagflazione si sia di nuovo impossessata dell’economia statunitense, passa in rassegna il settore immobiliare per saggiare la devastazione economica arrecata dalle politiche fiscali e monetarie lassiste del governo federale. In questo cappello voglio aggiungere un ulteriore elemento: il debito studentesco. Il mondo del lavoro si sta avvitando su sé stesso anche a causa di questo programma di finanziamento pubblico, il quale aumenta la disoccupazione istituzionale, sovrabbondanza di lavori non richiesti, incapacità di creare una famiglia, crisi di accessibilità a tutti i livelli sociali, ecc.  Come disse Milton Friedman: “Se volete di più di qualcosa, sovvenzionatelo; se ne volete meno, tassatelo”. I prestiti studenteschi, inizialmente, erano prestiti bancari tra privati: gli studenti si rivolgevano direttamente alle banche e il governo federale garantiva contro il loro default. Inadempienze e rimborsi erano considerati gestibili e la maggior parte di questi prestiti venivano rimborsati. Ma le regole sono state cambiate radicalmente quando è entrato in vigore l’Affordable Care Act (noto come Obamacare) nel 2010: il Dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti è diventato il prestatore e il progetto era realizzare profitti sufficienti sui prestiti agli studenti per pagare i premi agevolati dell’assicurazione sanitaria Obamacare. Col tempo è diventato evidente che non solo il nuovo programma dei prestiti studenteschi non stava realizzando i profitti come previsto, ma stava, di fatto, diventando una spada di Damocle sul collo del governo federale, poiché i rendimenti marginali sugli investimenti nei diplomi universitari non hanno automaticamente prodotto guadagni più favorevoli per i laureati e i mutuatari hanno fatto sempre più fatica a effettuare i pagamenti mensili richiesti per il prestito. Una volta finita l’università la maggior parte degli studenti finisce a fare “lavori umili”, impedendo loro di acquistare case e creare famiglie. Nel frattempo i costi universitari hanno superato di gran lunga i prezzi in altri settori dell’economia e gran parte di tale aumento finisce nel lato amministrativo dell’equazione. Negli ultimi anni è diventato chiaro che l’esistenza dei prestiti federali agli studenti ha dato ai college e alle università luce verde per aumentare le tasse scolastiche. E sta diventando preoccupante il fatto che molti studenti (e i loro genitori) non si rendano conto delle responsabilità che si assumono quando accettano i pacchetti di aiuti finanziari offerti dalle università; nel loro entusiasmo di voler frequentare le università desiderate, gli studenti ignorano i loro oneri finanziari futuri. Ed è chiaramente inaccettabile condonare i prestiti in sospeso, costringendo tutti i contribuenti – compresi quelli che non hanno frequentato l’università, o che l’hanno frequentata senza il beneficio dei prestiti, o che l’hanno frequentata con prestiti e li hanno rimborsati – a sopportarne il costo. Nel frattempo gli studenti continuano a richiedere questi sussidi e i costi non fanno altro che accumularsi.

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di David Stockman

Il grafico qui sotto incarna un sacco di storia politica e finanziaria moderna, anche se in superficie sembra abbastanza prosaico: misura, in potere d’acquisto del 2023, l’aumento del debito pubblico sin dal 1966.

Quell’anno, infatti, fu un punto di svolta per la storia fiscale moderna: la linea di politica “Guns and butter” di LBJ raggiunse il culmine, alimentata da un’impennata della spesa pubblica sia per la Great Society che per l’escalation della guerra contro i contadini del Vietnam. E fu anche l’anno in cui LBJ malmenò il presidente della Federal Reserve nel suo ranch in Texas, chiedendogli di stampare i soldi per sostenere quei ragazzi “sanguinanti e morenti nelle giungle del sud-est asiatico”, come affermò egli stesso.

Ma un esame del grafico rende chiaro che il punto di svolta effettivo in termini di esplosione del debito pubblico della nazione iniziò 15 anni dopo: nel 1980. In potere d’acquisto del 2023, il debito pubblico passò da $2.360 miliardi nel 1966 a $2.760 miliardi nel 1980, una crescita annua piuttosto modesta dell’1,4% in termini reali.

Anche con una FED moderatamente più accomodante dopo che William McChesney Martin venne “addomesticato” da LBJ e con l’impennata dei conti per lo stato sociale a marchio Nixon e Ford, non c’era alcun segno nel 1980 che i politici americani fossero sul punto di far galoppare il debito pubblico.

Purtroppo i successivi 43 anni hanno dimostrato il contrario, poiché quella che era stata la parte piatta del grafico qui sotto è diventata praticamente verticale.

In termini di potere d’acquisto odierno, il debito pubblico fino da allora è aumentato di 14 volte: da $2.700 miliardi nel 1980 a quasi $33.000 miliardi di oggi. Tale impennata ha rappresentato un ritmo di crescita più elevato, pari al 6,0% annuo.

Inutile dire che, su un periodo di tempo considerevole, la legge dell’aritmetica composta è un mostro. Se invece il debito pubblico fosse rimasto sul percorso di crescita dell’1,4% come accaduto tra il 1966 e il 1980, il debito pubblico oggi ammonterebbe a $5.000 miliardi e la spesa per interessi sul debito federale, ad un tasso standardizzato del 4%, sarebbe di $200 miliardi, non $1.300 miliardi.

Debito pubblico statunitense in dollari costanti 2023, dal 1966 al 2023

Andiamo quindi al sodo: la svolta epocale degli eventi ha comportato la defenestrazione del vecchio partito repubblicano e il conseguente annullamento della sua dedizione alla rettitudine fiscale, al denaro sano/onesto, al libero mercato, alla prosperità interna e al commercio pacifico con l’estero.

Al loro posto è arrivata innanzitutto la dottrina neoconservatrice dell’impero globale e dell’egemonia di Washington – integrata dai guerrieri della cultura anti-aborto, dagli amanti dei pasti gratuiti, dai guerrieri anti-immigrazione e dalla brigata greenspaniana del denaro facile. Insieme tutte queste digressioni hanno compromesso, distratto e, in definitiva, reso impotente il partito repubblicano quando si trattava della sua missione nella lotta politica: essere un cane da guardia del Tesoro e robusto guardiano dei contribuenti e dei produttori della nazione.

Tutto è iniziato quando un gruppo di fanatici neoconservatori ha preso il controllo del team di Ronald e l’ha convinto a perseguire una crescita reale del 7% del budget della difesa, raggiungendo il suo apogeo ora con Nikki Haley come alternativa dell’ultim’ora al ritorno di Donald Trump.

Con la possibile eccezione di Lindsay Graham, Nikki Haley è la repubblicana più interventista e favorevole alla guerra sulla scena politica odierna. Tuttavia un partito repubblicano che la considererebbe come suo candidato presidenziale nelle circostanze attuali ha sicuramente superato la data di scadenza quando si tratta di rivendicare il ruolo di partito conservatore nel tango bipartitico della governance in America.

L’amministrazione Reagan ereditò da Jimmy Carter un budget per la difesa nazionale di $400 miliardi, se misurato in dollari attuali (2023) di potere d’acquisto. Questo era tutto ciò di cui aveva bisogno la sicurezza nazionale americana di fronte a un impero sovietico in rapida decadenza ed era solo un po’ meno di quanto il grande Dwight Eisenhower aveva definito sufficiente nel 1961, quando mise in guardia contro il complesso militare-industriale nel suo discorso di commiato.

Ma a causa della presa di potere da parte dei falchi neoconservatori che spacciavano la falsa affermazione secondo cui l’Unione Sovietica era sull’orlo di attaccare per prima, il mantra della “crescita reale del 7%” per la difesa divenne la forza dominante a guidare la politica fiscale all’interno del partito repubblicano.

Quando Reagan lasciò l’incarico, il settore della difesa aveva assunto una nuova e massiccia dimensione: nel 1988 il budget per la sicurezza nazionale aveva raggiunto i $650 miliardi (dollari 2023), rappresentando un’espansione del 65% di un sistema già gonfio.

Peggio ancora, questo livello crescente di spesa per la difesa ha ucciso qualunque residua volontà di affrontare la questione all’interno del partito repubblicano, sempre più ossessionato da questo tema. Così quando Reagan lasciò l’incarico, il bilancio interno era pari al 15,4% del PIL, praticamente la stessa cifra che i “grandi spendaccioni di Carter” avevano lasciato davanti alla porta di Ronald Reagan.

Quindi, senza tagli alla spesa interna di proporzioni materiali, senza l’impennata dei bilanci della difesa e con i profondi tagli fiscali del 1981, si è cominciato a correre in termini di deficit annuali e di debito pubblico. E ciò lasciò Ronald Reagan a balbettare che se i deficit erano dovuti alla spesa per la difesa, non aveva importanza: “Non si transige sulla difesa, si spende ciò di cui si ha bisogno”.

Non c’è dubbio, quindi, che l’economia statunitense sia alle prese con un grave periodo di stagflazione (un periodo di alto tasso d’inflazione e lenta crescita economica) e questo nonostante il PIL negativo per il terzo trimestre del 2023. L’aumento annuo del PIL reale è dovuto all’enorme accumulo di scorte (+1,32%), all’assistenza sanitaria (+0,33%) e alla spesa pubblica (+0,79%). Queste voci non sono né stabili da un trimestre all’altro, né sono gli ingredienti di ciò che alimenta l’aumento del tenore di vita e della ricchezza sociale.

Infatti negli ultimi sei trimestri il PIL reale meno queste tre voci volatili è stato in media solo  dell’1,80%  annuo. Rispetto alla crescita storica del 3-4% annuo durante il periodo di massimo splendore della prosperità americana, il recente trend del PIL che rappresenta gli investimenti fissi, i consumi interni e le esportazioni nette non è stato niente di entusiasmante.

Variazione annua del PIL reale escludendo scorte, spesa pubblica e assistenza sanitaria: 

• Secondo trimestre 2022: +1,79%

• Terzo trimestre 2022: +2,36%

• Quarto trimestre 2022: +0,31%

• Primo trimestre 2023: +2,56%

• Secondo trimestre 2023: +1,26%

• Terzo trimestre 2023: +2,46%

Ciò riconduce alla disastrosa gestione economica di Donald Trump dal 2017 al 2020. Dal quarto trimestre del 2016 il livello dei prezzi è aumentato del 27% a causa delle misure di stimolo monetario e fiscale che Trump ha supervisionato, mentre la produzione effettiva misurata dall’indice della produzione industriale (manifatturiero, energetico, minerario e utenze pubbliche) ha guadagnato solo il 4,6%.

Quest’ultima cifra equivale a un tasso annuo di appena lo 0,67% annuo, ovvero solo un quinto del tasso annuo del 3,0% prevalente nell’arco di 69 anni tra il 1949 e il 2016.

Questa è una vera e propria stagflazione, secondo qualsiasi definizione.

Indice della produzione industriale rispetto all’IPC, dal quarto trimestre del 2016 al terzo trimestre del 2023

Inoltre questo risultato stagflazionistico non è nemmeno la metà di tutta la storia. Il fatto è che l’arco di quattro anni del mandato di Trump (2017-2020) ha compreso gli ultimi anni della ripresa post-Grande Recessione. Anche alla luce del repubblicanesimo all’acqua di rose, si supponeva quindi che fosse un periodo in cui la politica monetaria e fiscale sarebbe stata normalizzata: consolidamento fiscale e normalizzazione monetaria.

Detestiamo l’idea che recessioni come quella del 2008-2009 debbano essere contrastate con deficit fiscali su larga scala e pompaggio monetario da parte delle banche centrali. Questa è solo una vecchia storia di copertura keynesiana per l’incessante espansione dello stato e la classe dirigente a Washington composta da politici, burocrati del Deep State e scagnozzi dei media generalisti.

Tuttavia i repubblicani moderni sono stati solitamente a favore degli “stimoli” durante le recessioni, con il breve intermezzo del 1981-1982 come unica eccezione. Durante quegli anni la religione dello “stimolo” fu esplicitamente rifiutata dal repubblicanesimo di Ronald Reagan; era abbastanza antiquato da capire che le recessioni sono necessarie per eliminare gli eccessi inflazionistici di debito, spesa, investimenti sbagliati e speculazione, e quindi la crisi deve seguire il suo corso anche se i lavoratori e le famiglie sono temporaneamente supportati dall’indennità di disoccupazione, ecc.

Con Donald Trump non è andata così, però. Anche prima della vergognosa follia fiscale causata dagli stimoli fiscali del 2020, il deficit era salito a $983 miliardi nell’anno fiscale 2019.

Successivamente è stata la volta di un’economia alla Looney Tunes: i deficit dell’anno fiscale 2020 e 2021 sono saliti a un totale complessivo di $5.900 miliardi. Entrambi gli anni sono stati drasticamente gonfiati dalle misure di stimolo, comprese le loro estensioni nel piano di salvataggio di Biden. In realtà il totale di quei due anni è pari all’intero debito pubblico contratto sotto la sorveglianza di tutti i 43 presidenti durante i primi 212 anni di vita della nazione!

I sopraccitati $5.900 miliardi graveranno sui contribuenti statunitensi per generazioni a venire e sono quindi una follia imperdonabile. Si tratta di un comportamento assolutamente inaccettabile per qualsiasi politico eletto nelle fila repubblicane.

Per fugare ogni dubbio, controllate il grafico del deficit federale qui sotto: stava scendendo e poi è impazzito.

Deficit federale, dall’anno fiscale 2009 all’anno fiscale 2021

Inutile dire che questa ondata di prestiti ha favorito gravi distorsioni nell’economia di Main Street. L’unico lato positivo è che la tempesta di stimoli finanziati con inchiostro rosso ha finito per confutare l’illusione keynesiana secondo cui la spesa al consumo (PCE), se gonfiata artificialmente, alimenta una crescita economica sostenibile.

Indice del reddito personale reale meno trasferimenti sociali rispetto alla PCE reale, da febbraio 2020 a settembre 2023

Il livello della PCE totale è stato inizialmente enormemente gonfiato da tutte le misure di stimolo durante la presidenza Trump, compresi i $1.600 miliardi in tagli fiscali. Infatti, tra febbraio 2020 e settembre 2023, la crescita reale della PCE (linea nera) al 2,6% annuo è stata più del doppio della crescita del reddito personale reale derivante da salari, stipendi, interessi e dividendi. Inutile dire che il divario tra entrate e spese è stato compensato da una massiccia esplosione di pagamenti nell’ambito dei molteplici cicli di stimoli fiscali da migliaia di miliardi di dollari.

Di recente, poi, il Wall Street Journal non ha usato mezzi termini per descrivere l’aumento vertiginoso dei costi della casa:

Possedere una casa è diventato un sogno irrealizzabile per un numero sempre maggiore di americani, anche per quelli che potevano permettersi di acquistarla solo pochi anni fa […] acquistare una casa ora è meno conveniente che in qualsiasi momento della storia recente, e le cose non cambieranno tanto presto. […] Ciò significa che gli acquirenti ottengono molto meno rispetto ai dollari spesi. Prima che la FED iniziasse a rialzare i tassi, una persona con un budget immobiliare mensile di $2.000 avrebbe potuto acquistare una casa del valore di oltre $400.000; oggi lo stesso acquirente dovrebbe trovare una casa del valore di $295.000 o meno.

E sì, si può incolpare la FED per questo stato di cose, ma non per i tassi ipotecari sono troppo alti. Né il problema potrebbe essere risolto mediante l’imposizione di tetti massimi sui tassi ipotecari imposti dal governo federale.

In realtà i tassi ipotecari reali sono ancora al di sotto della norma; ciò che è troppo alto sono i prezzi delle case e questa condizione è attribuibile a decenni di repressione dei tassi d’interesse, i quali hanno avuto il grave effetto di “far trincerare” le persone in mutui a buon mercato che a loro volta stanno tenendo fuori dal mercato milioni di di case.

Per quanto riguarda i tassi ipotecari super-economici degli ultimi dieci anni e oltre, il meccanismo di inflazione dei prezzi delle case è semplice: le case sono il bene a leva per eccellenza, con un debito ipotecario totale pari a quasi $13.000 miliardi, di conseguenza l’offerta marginale per le proprietà è pesantemente finanziata dal debito, il che significa che più bassi sono i tassi d’interesse reali, più alto è il prezzo di equilibrio degli immobili.

Ma ora che i prezzi delle case sono saliti alle stelle a causa del debito ipotecario a basso costo, i potenziali acquirenti di case vengono martellati da tutte le parti: invece di scendere con l’aumento dei tassi d’interesse secondo le normali leggi dell’economia, i prezzi delle case continuano a salire a causa della disponibilità artificialmente scarsa di unità in vendita; quando si moltiplica un tasso ipotecario più elevato per un prezzo di una casa ancora più elevato, i pagamenti mensili dei mutui escono fuori dalla portata di una quota crescente di famiglie statunitensi.

Ciò con cui abbiamo a che fare qui sono gli effetti presumibilmente “non intenzionali”, ma prevedibili, dei tentativi della FED d’impostare i tassi d’interesse al di sotto – e di solito molto al di sotto – dei livelli di mercato. L’Eccles Building potrebbe non aver avuto intenzione di causare l’impennata dei prezzi delle case, o d’indurre i proprietari a tenere le proprietà fuori dal mercato per preservare bassi tassi ipotecari a lungo termine, ma questo è esattamente ciò che la sua sciocca linea di politica sui tassi ha sortito alla fine.

Quindi analizziamo questo pasticcio un componente alla volta. All’attuale livello nominale del 7,5%, i tassi ipotecari a 30 anni possono sembrare elevati rispetto al recente passato, ma visti nel contesto degli ultimi tre decenni chiaramente non lo sono.

Ciò significa che se un tasso ipotecario del 7,5% equivale a una crisi, allora c’è qualcos’altro che non va. Dopo tutto, tra il 1998 e il 2007 il tasso ipotecario è stato per la maggior parte del tempo ben al di sopra dei livelli attuali, ma il mercato immobiliare ha comunque fatto registrare un boom. Le vendite di case esistenti sono state in media di 6,0 milioni di unità all’anno (linea tratteggiata) e non sono mai scese al di sotto dei 5 milioni rispetto al livello di ottobre 2023 di soli 3,79 milioni di unità.

Di maggiore importanza è il tasso ipotecario aggiustato all’inflazione poiché l’inflazione tende a gonfiare sia i costi che i redditi. Eppure, su questo parametro chiave, l’attuale tasso ipotecario trentennale (linea viola) al +2,52% è in realtà inferiore a qualsiasi altro periodo prima del terzo trimestre del 2011. Sembra elevato solo se paragonato all’aberrazione causata dalla frenesia monetaria della FED durante la pandemia, quando il tasso ipotecario reale ha toccato il fondo a un assurdo e del tutto insostenibile -2,0% nel primo trimestre del 2022.

In altre parole, a parte alcuni mesi durante la follia finanziaria del 2020-2021 promossa da Washington, i tassi ipotecari aggiustati all’inflazione oggi sono al livello più basso degli ultimi 25 anni!

Questo sicuramente non può costituire una crisi.

Tasso ipotecario nominale a 30 anni rispetto al tasso aggiustato all’inflazione, dal 1998 al 2023

La vera crisi, ovviamente, riguarda il lato dell’equazione relativo ai prezzi delle case, dove le infermità inflazionistiche si stanno accumulando da cinquant’anni: durante i 50 anni trascorsi dal primo trimestre del 1973, i prezzi delle case (linea viola) sono aumentati di quasi il 1.300%, o del doppio dell’aumento del 610% dell’IPC (linea rossa).

Inoltre è evidente dal grafico qui sotto che la lezione del crollo immobiliare del 2007-2009 non ha avuto seguito. Dopo aver toccato il fondo nel primo trimestre del 2009, il prezzo medio di vendita delle case statunitensi è rimbalzato del 130% in corrispondenza del picco degli stimoli fiscali/monetari nel quarto trimestre del 2022.

Variazione del prezzo medio di vendita delle case negli Stati Uniti rispetto all’IPC, dal 1973 al 2023

Inutile dire che se i salari fossero rimasti ragionevolmente al di sopra dell’inflazione generale dell’indice dei prezzi al consumo, l’incessante aumento dei prezzi medi delle case sarebbe stato ovviamente già abbastanza grave di per sé, ma i salari medi non sono andati da nessuna parte in termini reali nell’ultimo mezzo secolo.

Di conseguenza questo confronto tra il salario orario aggiustato all’inflazione e il prezzo medio della casa aggiustato all’inflazione è sicuramente da inserire nel libro del Guinness World Record: negli ultimi cinque decenni il salario medio aggiustato all’inflazione (linea nera) è aumentato solo dell’1% e, tanto per essere chiari, ci riferiamo all’intero periodo di 50 anni, non ad un incremento annuo dell’1%.

Al contrario il prezzo medio delle case aggiustato all’inflazione (linea viola) è aumentato del 100%. Proprio così. Gli aumenti dei prezzi reali delle case hanno superato di 100 volte gli aumenti dei salari reali. C’è da meravigliarsi, quindi, se anche i tassi d’interesse reali degli ultimi mesi abbiano fatto precipitare in una crisi l’accessibilità agli immobili?

Il fatto è che c’è troppo “prezzo” nell’equazione del pagamento mensile del mutuo, non troppo “tasso”.

Salario medio reale & prezzo mediano reale della casa, dal 1973 al 2023

In altre parole, nel primo trimestre del 1973 ci volevano 3,9 anni di lavoro al salario orario medio ($4,14 l’ora) per eguagliare il prezzo medio di vendita delle case ($32.600); quella cifra ammontava a  8,3 anni nel 2022.

Non sorprende, quindi, che l’indice Home Affordability della National Association of Realtors sia attualmente al minimo da 37 anni.

Dati sull’indice di accessibilità agli immobili negli Stati Uniti forniti da YCharts

Inutile dire che la frenesia della stampa monetaria da parte della FED dopo il 2000 ha dato il colpo di grazia all’accessibilità economica del settore immobiliare. L’ultima volta che i tassi dei mutui trentennali (linea nera) sono stati superiori al 7% è stato nel primo trimestre del 2001, quando il prezzo medio delle case (linea viola) era pari a soli $179.000.

Attualmente il prezzo medio delle case è più alto del 140%, a $431.000, di conseguenza l’interesse aggiuntivo sul prezzo, assumendo un rapporto prestito/valore dell’80%, è superiore a $15.000 all’anno.

Tasso ipotecario a 30 anni rispetto al prezzo mediano della casa, dal 2001 al 2023

Inutile dire che il concetto di “prigionieri del tasso ipotecario” non è solo una metafora, i dati attuali sui livelli dei tassi d’interesse dei mutui immobiliari lasciano poco all’immaginazione: nel primo trimestre del 2023 ben il 95,2% delle ipoteche totali erano prestiti a tasso fisso. In termini di volume in dollari, uno sconcertante 70% di quei prestiti erano bloccati a tassi d’interesse del 4% o inferiori, mentre quasi il 30% era inferiore al 3,0%.

Non stiamo parlando di spiccioli, ci sono quasi $13.000 miliardi di mutui immobiliari in circolazione, il che significa che oltre $9.000 miliardi di essi hanno tassi d’interesse inferiori al 4%. Sulla base dei dati a nostra disposizione, il tasso medio su questi mutui non dovrebbe essere molto superiore al 3,3%, il che significa che la differenza del costo di mantenimento degli interessi rispetto all’attuale tasso di mercato al 7,5% è superiore a $400 miliardi all’anno.

Inoltre il tasso d’interesse medio di tutte le ipoteche ammonta attualmente solo al 3,7% e ciò significa che l’attuale titolare medio di un mutuo paga un tasso pari solo al 49% del tasso di mercato odierno per i nuovi mutui. Quando si parla di distorsioni del mercato e di effetti di “trinceramento”, anche questo è un tema destinato ai libri di storia.

Naturalmente la domanda ricorrente è se tutta questa distorsione – guadagni inaspettati prima ed effetti di “trinceramento” ora – ne valesse la pena. I dati seguenti implicano un sonoro no!

Lo scopo della soppressione artificiale dei tassi ipotecari negli ultimi decenni era quello di aumentare il tasso di nuovi investimenti e costruzioni immobiliari, ma in nessun modo ciò è accaduto. Su una base pro capite di completamento dell’edilizia abitativa, il livello oggi è inferiore del 55% rispetto al 1971.

Completamento pro capite di nuove unità abitative, dal 1971 al 2023

Quindi, per ripetere, l’incessante pompaggio monetario da parte della FED e la falsificazione dei tassi d’interesse hanno avuto un chiaro effetto sull’edilizia abitativa, e non quello propagandato dai keynesiani secondo cui tutto ciò avrebbe prodotto più unità abitative per le persone. Il risultato è stato gonfiare i prezzi delle case fino all’inverosimile: ha fatto lievitare il prezzo degli asset esistenti, non il livello d’investimenti in nuovi asset.

E ora che la FED è finalmente costretta a piegarsi fortemente al vento dell’inflazione, il tradizionale sogno della proprietà immobiliare è fuori portata per una maggioranza crescente di famiglie statunitensi: i tassi sono alti, l’offerta è bassa, i prezzi continuano a salire e l’accessibilità economica è diventata proibitiva.

Questo è solo l’ennesimo motivo per sottrarre il controllo del banco ai pianificatori monetari centrali; il tentativo di ancorare e microgestire i tassi d’interesse genera più danni che benefici.

Inoltre, come spiegato in un precedente pezzo, una finestra di sconto che fornisca credito della FED a tassi di mercato, più uno spread di penalità, alle banche membri fornirebbe un sostegno di liquidità più che sufficiente per il sistema finanziario di oggi. E funzionerebbe passivamente, guidato dalle forze di mercato e dalla creazione di nuova produzione economica e di garanzie commerciali.

Ancora più importante, le bolle speculative, l’inflazione dei prezzi e gli investimenti sbagliati sistematici non si verificherebbero, facendo tornare l’opportunità di possedere una casa alla portata delle famiglie della classe media.

[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/

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