La lezione di Wenders: cutsodire il tempo
I lettori di questo spazio divulgativo non sono insoliti leggere recensioni di film da cui poi il sottoscritto estrapola commenti o riflessioni in chiave economica o anche socioeconomica. A tal proposito, quindi, vorrei portare all’attenzione del mio pubblico l’ultimo lungometraggio firmato da Wim Wenders: Perfect Days. Forse è uno di quei film in cui si può proseguire a raccontarne la trama senza dover per forza di cose allarmare chi legge sull’incalzante arrivo di una sequela di spoiler. Il film, infatti, racconta la quotidianità di Hirayama, un colletto blu impiegato nella pulizia dei bagni pubblici a Tokyo. Ogni giorno che passa, e che lo spettatore all’inizio visiona ansioso di trovare una rottura nella ripetizione degli eventi narrati, è sostanzialmente uguale all’altro, salvo qualche variazione, una sfumatura che consegna un brivido o una lieve alterazione della routine del protagonista. Ognuna di essa è accolta con diverse emozioni, ma tutte si concentrano a massimizzare la propria felicità, il diritto di essere padrone della propria vita senza per forza di cose apparire come un estraneo agli occhi degli altri. E in questo modo i bagni pubblici per Hirayama non sono una prigione, una gabbia a causa della quale deve spendere la propria vita per tenere in vita un apparente stile di vita in linea con la frenesia che lo circonda, rappresentano invece un luogo in cui egli porta un pizzico della sua pace, della sua tranquillità, e la eleva cartina di tornasole per riversare tutta la passione che in corpo per un lavoro apparentemente umile, ma di grande impatto esistenziale. Il protagonista, quindi, lavora per vivere.
Perché ho deciso di scrivere questo pezzo? Perché ritengo che la pellicola di Wenders rappresenti l’approccio filosofico corretto di fronte al gigantesco furto del tempo messo in atto dai pianificatori centrali per portare avanti le loro macchinazioni. Un maggiore contesto a questa tesi ve la fornirà la lettura di questo, questo e quest’altro articolo, tutti scritti nel tentativo di smascherare il lato pratico di questa faccenda. Infatti l’obiettivo ultimo di questo trittico è quello di infondere consapevolezza nel lettore che qualcuno sta attingendo pericolosamente alla risorsa di capitale più preziosa al mondo e quindi permettergli di scegliere il miglior percorso per emanciparsi da tale furto. Un vantaggio competitivo non indifferente rispetto ai propri pari che continuano invece a ignorare la presenza ingombrante di una attore malevolo sempre pronto a ripulirlo di gran parte di quello che ha, guadagnato con estrema fatica e legittimità. Questo significa che altri continueranno a essere vittime di questo saccheggio? Sì. Così come Hirayama può “salvare” solo sé stesso dalla frenesia della vita quotidiana, voi, cari lettori, potete salvare solo voi stessi. E questo, credo, non è affatto poco.
La pellicola è pregna di simbolismi che possono essere ricondotti a una sintesi ridotta veramente all’osso di come il trascorrere della vita moderna sia incessantemente incentrato sul posizionarsi all’esterno di sé stessi e lasciarsi vivere. Quasi come se le scelte intraprese fossero impersonali, dettate da un sé avulso dalla propria identità che si deve per forza di cose conformare a un amalgama freddo e privo di pulsioni noto come “collettività”. Per quanto le azioni siano pur sempre incapsulate nella natura individuale degli esseri umani, il processo decisionale che influenza la loro espressione fenomenologica è infettato dal bias socioeconomico dell’ambiente che ci circonda. In sostanza, era questo il messaggio che ad esempio Mises ci invitava a metabolizzare nel suo libro Theory and History. Accade ancora oggi ed è impossibile non notare come la propaganda si sia pericolosamente insinuata nelle pieghe delle idee per mutare la storia. Ecco quindi che abbiamo sacche d’individui che paiono agire in modo irrazionale, quasi in modo antitetico alla loro salute psico-fisica, ma essi sono solo il risultato di un processo decisionale pesantemente esposto a una visione del mondo collettivista. Per questo, ad esempio, Hirayama è “solo”. In realtà, non lo è dato che nell’intero film vediamo che funge da forza centripeta nei confronti di diversi altri personaggi; è il suo esempio, il suo modo di agire squisitamente individualista, che funge da catalizzatore nei confronti di chi ancora alimenta un barlume di curiosità.
L’incantesimo della propaganda si spezza e l’essere umano che si approccia all’esempio di Hirayama torna a coltivare, come fa lui con le sue piantine, un centro gravitazionale-decisionale incentrato sul benessere proprio piuttosto che su quello altrui. È solo in questo modo, come sappiamo dai tempi di Adam Smith, che si possono aiutare davvero gli altri. Wenders ci suggerisce che la chiave di lettura per tornare a essere custodi del nostro tempo passa attraverso piccoli aggiustamenti al proprio stile di vita, al proprio modo di “riempire” le famose categorie kantiane trascendenti. E questo messaggio è splendidamente racchiuso dallo sguardo sorridente e grato dello straordinario Kōji Yakusho (Hirayama) che ogni mattina rivolge al cielo prima di mettersi in marcia e raggiungere il posto di lavoro. Come si potrebbe pensare, immedesimandosi nell’immaginario collettivo della società odierna, che un colletto blu possa essere un fulcro talmente importante da rappresentare un esempio da seguire? I dialoghi, infatti, non sono molti e spesso una carrellata di immagini inondano l’occhio dello spettatore, ma questo escamotage tecnico vuole suggerire: “Fermati un attimo, non tutte le storie possono essere narrate a voce. Non bisogna essere inondati di sensazionalismo per avviare una riflessione critica. Bastano pochi input ben selezionati dallo sguardo”.
I “giovani”, categoria sociale tanto vituperata al giorno d’oggi e protagonista di un gap stereotipato (ad hoc) con gli adulti, sono i primi a cogliere l’esempio di Hirayama. Infatti quando vediamo in scena Aya (Aoi Yamada), la ragazza corteggiata dal collega del protagonista, ci appare come la frivola ragazza in età post-adolescenza con tutta la vacuità con cui i mass media dipingono questa “classe” di persone. Come potrebbe quindi un adulto, ormai sulla soglia della terza età, fare colpo su un tipo simile? Osservando, ascoltando, fermandosi. Per ovvie scelte cinematografiche questo processo è velocizzato, ma lo spettatore non si trova spiazzato dal cambiamento bensì lo accoglie con favore. Anzi, è portato a desiderarlo. Il bacio di Aya a Hirayama è la realizzazione di tale desiderio agli occhi dello spettatore. Lo stesso processo lo vediamo ripetersi quando Niko (Arisa Nakano), la nipote del protagonista, si reca dallo zio per fuggire dalla vita squilibrata che conduce con la propria famiglia. Il suo è un personaggio importante e caratterizzerà diverse giornate della vita di Hirayama e con quest’ultimo imparerà cosa significa tornare a essere proprietari del proprio tempo. Emblematica è la scena in bicicletta in cui entrambi vanno in bici durante una bella giornata di sole e Niko improvvisamente chiede allo zio quando sarebbero andati al mare. “Un’altra volta”, la sua risposta; allora lei lo incalza domandandogli il perché e lui risponde: “Perché adesso è adesso”. L’essenza di questa battuta è il grimaldello per scardinare quell’imponente portone dietro cui la maggior parte si trincera, vivendo in un futuro indefinito e dimenticandosi del presente. Niko si stava perdendo la leggera brezza che le accarezza il volto, il gentile tocco del calore del sole, la spensieratezza del tempo passato insieme a una persona di valore, gli scorci meravigliosi che può intravedere tra un colosso di cemento e un altro. Ma, soprattutto, stava perdendo l’occasione di custodire quel momento come un ricordo felice insieme a una persona speciale.
Se ci soffermiamo, poi, a considerare meglio i dettagli, noteremo che l’esercizio di Wenders è un grande monito rivolto allo spettatore affinché torni a rivalutare il proprio tempo, la risorse di capitale più scarsa presente in questa esistenza. Infatti gli oggetti a cui Hirayama tiene molto, fanno tutti parte di un tempo passato: il walkman, le musicassette, una macchinetta fotografica analogica. Il consumismo a tutti i costi indotto dalla “necessità” di entrare in possesso dell’ultima novità in un qualsiasi settore d’interesse, per poi abbandonarlo e dedicarsi al successivo, rappresenta un esercizio fine a sé stesso che mette l’oggetto al centro dell’attenzione e non il valore che l’individuo potrebbe imputare a esso. Emblematica, infatti, la scena nel banco dei pegni quando il suo collega di lavoro, Takashi (Tokio Emoto), vuole convincerlo a vendere una musicassetta in cambio di yen; il categorico rifiuto del protagonista ci ricorda una cosa: il denaro è un mezzo, non un fine. Nel momento in cui si ha l’arroganza di alterare questa formula, iniziano i guai: il circolo vizioso della ruota per criceti si spiralizza sempre di più e il furto del tempo da parte delle autorità viene esponenzialmente semplificato. E questa lezione ci viene ricordata anche quando, prestando dei soldi a Takashi, il protagonista rimane al verde ed è quindi “costretto” a mangiare ramen istantaneo a casa. Sebbene la sua routine l’avrebbe portato a cenare in un ristorante in cui ama andare, quella sera non avrebbe potuto e piuttosto che indebitarsi sceglie invece di arrangiarsi a casa. Il potere del risparmio, dell’astensione dal consumo, del differimento di quest’ultimo: tutti “mezzi” economici che hanno caratterizzato l’ascesa di una società lungo linee di solida prosperità. E il Giappone questo lo sa bene.
Chiaramente il lungometraggio di Wenders non ha la presunzione di ergersi a trattato economico in cui evidenzia le problematiche insite nella natura fiat del denaro e per estensione nelle persone, questo è un compito che ad esempio ho svolto io negli articoli citati in precedenza all’inizio di questo saggio. Anzi, essi sono la logica conclusione per capire le meccaniche che costituiscono la metafora della ruota per criceti fiat, la quale sottrae tempo, risorse ed energia ad appannaggio di una ristretta cerchia d’individui che, spacciando illusioni e finzioni, riescono a tenere in piedi questo gigantesco Effetto Cantillon. Wenders invece suggerisce invece di ripensare alle piccole cose: un sospiro, un hobby, una parentesi di silenzio. Amare sé stessi, confrontarsi col proprio sé, è il primo passo per potersi successivamente confrontare con gli altri e amarli. Hirayama, infatti, non ha bisogno di molte parole per comunicare agli altri la sua filosofia, o, più banalmente, non ha bisogno di molte parole per intessere rapporti sociali. Sono le sue azioni che parlano per lui. Le azioni individuali sono l’esempio per eccellenza che si può dare agli altri per dimostrare la propria coerenza, il proprio credo, la propria determinazione. I dialoghi con Niko non sono tanti, ma lei, prima di ritornare con la sua famiglia, confessa allo zio che vorrebbe essere come lui. Le bastano una manciata di giorni con lui sul posto di lavoro e il pranzo al sacco nel parco della città per arrivare a questa conclusione: tutte le azioni di Hirayama confluiscono nella manifestazione fisica di quanto sia importante per il benessere individuale dell’essere umano far coincidere le proprie azioni con le parole. Non si dice spesso che i bambini apprendono dai genitori in base a quello che fanno e non a quello che dicono?
Questo meccanismo d’apprendimento non è nuovo se traslato alla fenomenologia del nostro mondo, soprattutto se prendiamo come esempio Bitcoin. La sua rivoluzione “silenziosa” non ha avuto bisogno di propaganda, pubblicità o sponsorizzazioni da parte di grandi istituzioni: Satoshi ha lanciato l’applicazione e man mano ha attirato a sé coloro che avevano un minuto per ascoltare. La cacofonia del denaro fiat è stata silenziata per un momento e ci si è fermati ad ascoltare: trustless, permissionless, borderless, timeless, censorship resistant, privacy driven. Di colpo la ruota per criceti s’è materializzata davanti agli occhi di coloro che hanno visto svanire l’incantesimo della fiducia in terze parti e quello che rimaneva loro era un mondo orrendo costruito sul parassitismo del prossimo. Il mondo non funziona come un gioco a somma zero: queste sono le sole parole che si odono dal protocollo Bitcoin e che, nel corso del tempo, hanno catalizzato sempre più attenzioni nei suoi confronti. Gli scambi vicendevolmente vantaggiosi esistono. Da qui la riscoperta della Scuola Austriaca che fornisce un background filosofico granitico a questa verità assiomatica, la voglia quindi di esplorare, attraverso le buone letture, un mondo che la propaganda definiva una chimera o irraggiungibile. Perché darsi la pena di ricercare un mondo che non esiste, impossibile da costruire? La “terza via”, ci è stato insegnato, è l’apice dell’evoluzione umana a livello di sistema socioeconomico. Poi arriva Bitcoin, e come Toto nel film Il mago di Oz, la tenda viene tirata giù e ciò che ne rimane è uno spettacolo grottesco: la cosiddetta “terza via” è solo una deviazione che infine si ricongiungerà con la via verso il socialismo. O esiste l’economia di libero mercato o altrimenti si tratta di socialismo, come spiegò Mises nel libro Planning for Freedom. L’inganno e la scoperta che esiste altro rispetto al mondo che (si presumeva) si conoscesse rappresentano il propellente per alimentare la curiosità dell’essere umano, desideroso di voler seguire il bianconiglio fino fondo alla sua tana. E non è la stessa cosa che accade quando Niko chiede allo zio di poter tenere il libro di Faulkner che le ha prestato?
Rivalutare, prima, e riprendersi poi, il proprio tempo è la motivazione che fa da collante all’intero arco narrativo. Come già sottolineato, il film non indaga la natura del furto del tempo, ma permette d’intuirne la presenza attraverso un’emancipazione dalla frenesia della vita quotidiana. A tal proposito è rilevante una delle scene iniziali in cui la macchina da presa ci porta a vedere, per la prima volta, il posto di lavoro di Hirayama. Il fugace incontro con un colletto bianco, visibilmente devastato dalla vita professionale che conduce, è un accento più che marcato a quanta differenza faccia amare e avere passione per ciò che si svolge quotidianamente. Quel colletto bianco è la rappresentazione esatta del fenotipo medio di criceto fiat che corre sulla ruota, risucchiato fino al midollo di tutto ciò che lo rende un essere umano; di contro abbiamo Hirayama con la sua filosofia, meticolosamente attento a non farsi sfuggire neanche un punto mentre svolge il suo servizio di pulizia. Dedizione? Professionalità? Direi più semplicemente soddisfazione, perché tutto ciò che potesse desiderare è a sua portata di mano. Finzioni e illusioni servono a nascondere l’irraggiungibilità dell’orizzonte; allo stesso modo la svalutazione del denaro fiat, e il conseguente degradamento del tempo e delle connessioni sociali, vengono abilmente nascosti attraverso sotterfugi statistici e propaganda politica.
L’esito inevitabile è una morte sociale, spirituale e culturale, oltre ovviamente a quella economico. Gli zombi di romeriana memoria non erano altro che una metafora di questa deriva apocalittica. E infatti vediamo riportato anche questo fenomeno sullo schermo di Perfect Days quando, sul finale, Hirayama ha un confronto con un uomo malato terminale. Quest’ultimo si proietta già nella tomba, un ricettacolo di carne ambulante non mosso da desideri e aspettative, scelte e passioni, bensì da una malinconia crescente e disfattismo imperante. È davvero la fine? Era davvero la fine delle libertà economiche quando nel ’71 venne bandito definitivamente il denaro sano/onesto? In entrambi i casi ci si dimentica di un tassello, per quanto banale e insignificante possa all’apparenza sembrare: finché si è coscienti e si respira, si è vivi; finché esiste anche un solo essere umano capace d’inventiva, il libero mercato è vivo. Questo l’ha/hanno dimostrato Satoshi nel 2008 e questo ce lo ricorda Hirayama quando gioca ad “acchiappa l’ombra” con quel malato terminale. Non è finita finché non è finita potremmo dire, o più in generale il vivere quotidiano ci presenta una miriade di occasioni per emanciparsi dalla ruota per criceti fiat. La vera domanda è: la si vuole cogliere questa occasione?
Quindi, cari lettori, domattina, quando vi sveglierete o uscirete di casa, tirate un sospiro di sollievo. Siete vivi e siete padroni della vostra vita.
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