La proprietà privata deriva dalla scarsità, non dalla legge
di Joakim Book
La proprietà è un principio economico chiave affinché i mercati possano funzionare e gli attori di mercato possano vivere in armonia tra di essi. Ma come per tante cose nell’era moderna, si applica la scena (e il meme che l’accompagna) del film del 1987, La storia fantastica: “Continui a usare quella parola; non penso che significhi quello che tu pensi significhi”.
Per il marxista proprietà significa accaparramento ingiusto di risorse. La maggior parte degli americani pensa alle proprie case. Per Murray Rothbard e molti altri libertari che riflettevano profondamente sulla natura della società, la proprietà significa civiltà e “implica il diritto di trovare e trasformare le risorse: produrre ciò che sussiste e fa avanzare la vita”.
I diritti di proprietà mediano la decisione sociale su come utilizzare le risorse per le quali esistono fini concorrenti. In altre parole, gli esseri umani utilizzano l’uso dei diritti di proprietà per determinare quale pezzo di terra od oggetto può essere utilizzato da chi, in quale momento e per quale scopo. Invece di avere un sistema elaborato per individuare il fine collettivo più vitale e quali mezzi possono essere utilizzati per raggiungerlo, decentralizziamo la decisione lasciando che ciascun proprietario di arance, case o macchinari decida come e quando maneggiarli. Dato che alcune risorse hanno usi rivali e concorrenti, la società utilizza la “proprietà” come meccanismo per esternalizzare il processo decisionale su tali risorse.
La scarsità, come sosteneva Lionel Robbins, è il problema fondamentale da cui nasce l’economia.
Tutto questo mi viene in mente mentre guardo la miniserie The Playlist, un documentario sull’ascesa del servizio di streaming musicale Spotify. Si basa sul libro Spotify Inifrån e contiene numerose riflessioni di alto livello sul valore economico, sulla scarsità e sulla proprietà. Il conflitto centrale che attraversa la miniserie (e l’industria che Spotify ha sconvolto) riguarda la natura della proprietà, vale a dire la proprietà intellettuale. Valutare come essa non sia proprietà ci informa quindi su cosa comporta il concetto.
Una scena è particolarmente rivelatrice. Il personaggio del programmatore Andreas si lamenta della monetizzazione del suo software; ciò che lui e il suo team avevano costruito avrebbe dovuto essere diverso, offrire musica a chiunque gratuitamente, invece di diventare l’ennesimo business capitalistico con pagamenti e altri ostacoli finanziari.
Poi, dopo una svolta tecnica, esclama con orgoglio che “abbiamo presentato la domanda di brevetto questa mattina”, senza rendersi conto che così finì per giocare secondo le stesse regole economicamente analfabete che aveva denunciato in precedenza.
I brevetti sono un modo di usare la legge per monopolizzare una risorsa altrimenti gratuita e replicabile. La tecnica dei file audio MP3 ha scardinato l’industria del diritto d’autore, scrive Knut Svanholm, un bitcoiner con un profondo fascino per l’economia Austriaca (di cui vale la pena leggere il libro sulla prasseologia). In, Bitcoin: Everything Divided by 21 Million, scrive:
I file audio sono diventati improvvisamente condivisibili tra gli utenti di Internet perché erano diventati piccoli. Era caduto un domino che presto avrebbe reso obsoleta l’intera industria discografica. E non solo quest’ultima, ma l’intera industria dell’intrattenimento. Qualsiasi file informatico poteva essere condiviso gratuitamente con chiunque sulla Terra tramite Internet.
I file informatici, come la musica registrata, sono diventati non rivali e – a parte alcuni colossi aziendali e i loro sforzi di lobbying – infinitamente copiabili e non escludibili. I file, quindi, non sono proprietà poiché non sono scarsi.
L’incapacità fisica ed economica (ma non legale!) di escludere gli utenti da parte dei creatori di ricette, di invenzioni, di musica o di altre cose rese non scarse dalla tecnologia, è il principio stesso che rende la proprietà intellettuale una non proprietà.
Ludwig von Mises, sebbene un po’ ambivalente sull’argomento, capì che l’erronea etichetta di suddetto termine riguardava la mancata comprensione della “inesauribilità dei servizi, i quali non sono scarsi e non c’è bisogno di economizzarne l’impiego”. Innovazioni e altre ricette, scrisse in Human Action
sono beni gratuiti in quanto la loro capacità di produrre effetti definiti è illimitata. Possono diventare beni economici solo se sono monopolizzati e il loro utilizzo è limitato […]. [I brevetti] sono considerati privilegi, vestigia del periodo rudimentale della loro evoluzione, quando la tutela giuridica veniva accordata agli autori e agli inventori solo in virtù di un privilegio eccezionale concesso dalle autorità. Sono ambigui, perché sono redditizi solo se consentono di vendere a prezzi di monopolio.
Se pensate ancora che ci siano dei meriti nelle leggi sulla proprietà intellettuale, per analogia, immaginate un contesto diverso. Un’insegnante di matematica inizia a spiegare ai suoi alunni di quinta elementare che esiste una relazione universale tra la lunghezza della base, l’altezza e l’ipotenusa di un triangolo rettangolo. Dopo la lezione, mentre gli studenti annoiati escono dall’aula, l’insegnante si dirige all’ufficio amministrativo, compila il modulo standard sui diritti d’autore e chiede il bonifico scolastico alla Fondazione Pitagorica.
Ciò non può che sembrare assurdo per la maggior parte degli osservatori. Nessuno può possedere il Teorema di Pitagora nello stesso modo in cui possediamo camicie, case o vigneti. Anche se ci fosse un creatore conosciuto (non Pitagora), è ben oltre ogni ragionevole scadenza affinché il materiale protetto da diritto d’autore diventi di pubblico dominio. Ma perché no? Qual è la differenza tra il Teorema di Pitagora e, ad esempio, la musica di Taylor Swift?
Solitamente vengono avanzate due argomentazioni. In primo luogo, se non premiamo i creatori, sia nel campo della musica, dell’arte o dell’innovazione, smetteranno di creare. Osservando qualsiasi creatore al lavoro, ciò è errato; inoltre non vi è alcuna prova che i brevetti aumentino le innovazioni o la produttività. La maggior parte delle opere d’arte storiche, della narrativa, delle innovazioni o della musica sono state realizzate da lavoratori comuni o da appassionati, a volte con il sostegno di ricchi mecenati.
In secondo luogo, diversi personaggi dell’industria musicale nella saga di Spotify invocano ripetutamente l’appello a una giustizia compensativa per il proprio lavoro: perché non dovrei avere il diritto a un compenso per il mio lavoro, proprio come tutti gli altri che lavorano e ricevono uno stipendio? Per una mera questione economica: no, non dovresti. Le transazioni economiche e i diritti di proprietà che utilizziamo sono intrinsecamente legati alla scarsità. Non valutiamo né scambiamo ossigeno, complimenti o la ricetta dello stufato di carne di vostra nonna, non perché non siano preziosi ma perché non sono scarsi. Il vostro “lavoro” musicale è più simile a queste cose piuttosto che ai contratti di lavoro. L’uso di beni immateriali non escludibili e non rivali da parte di una persona non impedisce a un’altra di usarli. Non meritate un compenso finanziario per il vostro duro lavoro respiratorio, né per essere una brava persona con gli altri; meritate un compenso economico quando utilizzate risorse scarse per generare valore per gli altri (per quanto riguarda la generosità e i doni – e l’interessante adozione da parte dei bitcoiner del rapporto “valore per un valore” – ci sono molti altri trattati economici che affrontano questi temi).
La proprietà è legata alla fisicità del mondo, derivante direttamente dalla scarsità delle cose. L’umanità starebbe meglio se si astenesse dall’imporre pagamenti artificiali e finalizzati alla ricerca di rendita su idee non rivali e intangibili.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/
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