L’amministrazione Biden continua a implementare linee di politica idiote riguardo l’acciaio
di James Bovard
L’amministrazione Biden sta cercando di rafforzare la sua campagna di rielezione silurando le importazioni cinesi. In un discorso del 17 aprile a Pittsburgh, il cuore dell’industria siderurgica americana, Biden ha annunciato di voler triplicare i dazi sulle importazioni cinesi di acciaio e alluminio. I dazi attualmente ammontano a circa il 7,5%. Un comunicato stampa della Casa Bianca affermava: “ Il presidente Biden sa che l’acciaio è la spina dorsale dell’economia americana e un fondamento della nostra sicurezza nazionale”. Questa è l’ennesima prova che, per quanto riguarda la politica commerciale, i politici americani non hanno imparato nulla e non hanno dimenticato nulla.
Biden non aveva promesso di lasciarsi alle spalle le linee di politica stupide? Ricordate l’affermazione di Donald Trump del 2018 secondo cui “le guerre commerciali sono positive e facili da vincere”? Quando Trump impose un dazio del 25% sulle importazioni di acciaio nel 2018 venne ampiamente criticato per aver sovvertito la salute del settore manifatturiero americano solo per tenere in piedi un’unica industria.
Adesso Biden ha raddoppiato la posta in gioco. Il Washington Post scrisse nel 2021: “Una delle iniziative commerciali più controverse di Trump, che ha fatto arrabbiare gli alleati degli Stati Uniti e ha attirato il disprezzo di molti economisti, è diventata un pilastro della politica commerciale ‘incentrata sui lavoratori’ di Biden”. Ci sono 135.000 lavoratori in questo settore negli Stati Uniti rispetto ai più di sei milioni nelle industrie che usano l’acciaio. Politici e burocrati fanno finta che quest’ultimo numero non esista. Il Post scrisse che “l’amministrazione Biden è determinata a mantenere il proprio sostegno agli United Steelworkers, una forza portante negli stati chiave del Midwest”. I dazi sono diventati sempre più distruttivi; il prezzo dell’acciaio laminato a caldo è aumentato di oltre il 300% e i produttori si sono lamentati della carenza di materiali, dell’aumento dei prezzi e dei ritardi nelle consegne.
I produttori di acciaio sono stati i più grandi piagnucoloni e criminali del mondo commerciale nella storia americana moderna. L’industria dell’acciaio è stata fortemente protetta sin dalla costruzione della prima acciaieria in America nel 1875. Grazie a dazi elevati, Andrew Carnegie progettò il trust dell’acciaio, diventato leggendario per la vendita di acciaio all’estero a un prezzo di gran lunga inferiore rispetto a quello negli Stati Uniti. La US Steel si fece un occhio nero quando il presidente Theodore Roosevelt acquistò acciaio prodotto negli Stati Uniti direttamente in America Centrale, al 40% in meno rispetto a Pittsburgh, per la costruzione del Canale di Panama.
Durante le amministrazioni Johnson, Nixon e Carter, le importazioni di acciaio dall’Europa e dal Giappone furono soffocate dalle cosiddette restrizioni volontarie, che gli stranieri accettarono a malincuore invece di essere totalmente banditi dal mercato statunitense. Ma vietare i prodotti stranieri fece emergere il peggio delle aziende statunitensi. L’allora vice ambasciatore commerciale statunitense, Linn Williams, ammise che nel 1984 gli Stati Uniti erano “uno dei produttori [di acciaio] meno efficienti al mondo”. Il capo della Nucor Minimill, Ken Iverson, osservò nel 1986:
Non appena i prezzi cominciarono a salire [grazie alle restrizioni all’importazione] e le aziende siderurgiche cominciarono ad essere redditizie, queste ultime smisero di modernizzarsi. È solo sotto l’intensa pressione competitiva – sia internamente da parte delle mini-acciaierie, sia esternamente da parte di giapponesi e coreani – che le grandi aziende siderurgiche sono costrette a modernizzarsi.
Ma queste realtà di base non impedirono all’amministrazione Reagan di limitare severamente le importazioni di acciaio dal 1982 in poi. Nel 1984 il Congresso approvò un disegno di legge che conteneva una disposizione sulla scarsità di offerta, intesa “a proteggere gli acquirenti nazionali di prodotti siderurgici da eccessive turbolenze dovute all’incapacità di ottenere forniture adeguate da fonti nazionali”. Ma il Dipartimento del Commercio decise che nessun onere era troppo grande, nessun prezzo troppo alto e nessuna qualità troppo bassa per costringere i produttori americani a finanziare i produttori di acciaio statunitensi.
Nel 1986 lo stesso Dipartimento del Commercio impiegò in media 236 giorni per approvare una richiesta di fornitura scarsa. Come testimoniò Allan Mendelowitz del General Accounting Office: “Uno dei motivi per cui le decisioni hanno richiesto così tanto tempo […] era specificamente quello di creare ostacoli all’acquisizione di acciaio attraverso il nostro programma”. Il vice segretario aggiunto Gilbert Kaplan, che gestiva tale programma, dichiarò nel 1988 che una scarsità di scorte “non è una situazione negativa. […] è una situazione positiva”, il che significa che il settore “sta andando molto bene”. La linea di politica federale sull’acciaio conferiva a un solo uomo l’autorità di giudicare se i produttori americani avessero davvero bisogno dell’acciaio che chiedevano. Bill Lane, un alto funzionario della Caterpillar, ci ha ricordato che: “I prezzi elevati dell’acciaio e le carenze indotte dalle quote stavano minando l’efficienza delle fabbriche poiché i processi just-in-time hanno lasciato il posto a soluzioni alternative just-in-case”.
Le quote sull’acciaio dell’amministrazione Reagan distrussero molti più posti di lavoro di quanti ne salvarono. Il professor Hans Mueller ha stimato che esse comportarono la perdita di tredici posti di lavoro nelle industrie che utilizzavano l’acciaio per ogni posto di lavoro salvato di un operaio siderurgico. L’Institute for International Economics ha stimato che le quote costavano l’equivalente di $750.000 all’anno per ogni lavoro siderurgico salvato. Uno studio della Federal Trade Commission del 1984 stimava che le quote sull’acciaio costavano all’economia statunitense $25 per ogni dollaro aggiuntivo di profitto netto dei produttori di acciaio americani.
Nonostante la devastazione economica, nel 1989 il presidente George H. W. Bush estese le quote di importazione dell’acciaio per altri due anni e mezzo. Bush definì l’estensione delle quote un “programma di liberalizzazione del commercio dell’acciaio”, come se la retorica del libero mercato potesse magicamente trasformare la natura di un sistema invece protezionistico. Le quote del 1989 furono ampliate per includere tubi per il petrolio, assali e ruote di locomotive ferroviarie, danneggiando così sia l’industria petrolifera statunitense che i produttori di treni. Con l’amministrazione Bush gli Stati Uniti imposero 231 quote separate che coprivano 500 diversi prodotti siderurgici sulle importazioni di acciaio da diverse nazioni.
La linea di politica siderurgica di Reagan e Bush mise in ginocchio la competitività degli Stati Uniti. L’ex-presidente della International Trade Commission (ITC), Paula Stern, ha osservato: “I prezzi gonfiati dell’acciaio negli Stati Uniti sono stati un fattore importante nell’erosione della preminenza manifatturiera e dell’occupazione degli Stati Uniti dagli anni ’60 alla metà degli anni ’80”. L’ITC ha concluso che le quote di importazione sull’acciaio fecero salire il deficit commerciale degli Stati Uniti, causando un aumento significativo delle importazioni di manufatti contenenti acciaio e una diminuzione delle esportazioni statunitensi di prodotti siderurgici.
I politici che sostenevano il blocco dei porti americani contro l’acciaio estero non hanno mai ammesso che l’acciaio americano fosse ampiamente percepito come di qualità inferiore rispetto a quello estero. Il rifiuto della Ford Motor Company per l’acciaio prodotto negli Stati Uniti durante gli anni ’80 era cinque volte superiore a quello per l’acciaio estero. Un sondaggio ITC del 1990 mostrò che il 55% degli acquirenti americani di barre e tondini di acciaio inossidabile valutava la qualità dei prodotti e il servizio clienti giapponesi “eccellenti”, mentre solo il 2% valutava altrettanto positivamente la qualità dei prodotti e del servizio statunitensi.
Ma le follie protezionistiche della fine del XX secolo non impedirono a George W. Bush, il primo presidente del nuovo secolo, di imporre nuove restrizioni sulle importazioni di acciaio. Quando entrò in carica più della metà di tutte le importazioni di acciaio erano limitate dal controllo federale sui prezzi, attraverso sanzioni contro i sussidi esteri o sanzioni contro i prezzi bassi (il cosiddetto dumping). I lobbisti dell’acciaio ebbero un ruolo importante nella stesura delle leggi statunitensi sul “commercio equo”, le quali aiutavano a garantire che la concorrenza estera venisse giudicata colpevole nonostante l’assenza di illeciti.
Anche se all’inizio degli anni 2000 le importazioni complessive di acciaio erano in calo, l’ITC ha concluso che le acciaierie americane erano state danneggiate da una “impennata” delle stesse. L’unico prodotto con importazioni in forte aumento erano le bramme di acciaio: prodotti non finiti acquistati dalle acciaierie americane e trasformati in prodotti finiti di valore più elevato. L’ITC ha sottolineato che le acciaierie americane erano state gravemente danneggiate dalle lastre straniere che avevano volontariamente acquistato e da cui avevano tratto profitto. Non aveva alcun senso ma, poiché era la legge commerciale degli Stati Uniti, non doveva avere senso.
L’amministrazione Bush sapeva già prima d’imporre nuovi dazi che i problemi dell’industria siderurgica non erano dovuti al commercio sleale. All’inizio del 2001 il Dipartimento del Tesoro incaricò il Boston Consulting Group di analizzare l’industria siderurgica statunitense e la situazione mondiale dell’acciaio. L’American Metal Market riferì che lo studio “ha evidenziato le inefficienze nella produzione di acciaio statunitense rispetto ai concorrenti mondiali” e “ha misurato l’efficienza dell’industria siderurgica statunitense, posizionandola nell’ultimo terzo di un confronto globale”. Le aziende siderurgiche statunitensi furono indignate dallo studio, quindi il Dipartimento del Tesoro cancellò quella relazione.
Il 5 marzo 2002 il presidente Bush impose un nuovo dazio del 30% sulle importazioni di acciaio: “Il libero scambio è un importante motore della crescita economica e una pietra angolare della mia agenda economica”. Disse poi come avrebbe protetto i lavoratori americani da quella pietra angolare:
Parte integrante del nostro impegno per il libero scambio è far rispettare le leggi sul commercio e garantire che le industrie e i lavoratori americani possano competere in base a condizioni di parità […]. Oggi annuncio la mia decisione d’imporre misure di salvaguardia temporanee per dare all’industria siderurgica americana e ai suoi lavoratori la possibilità di adattarsi al grande afflusso di acciaio estero.
Bush invocò le leggi statunitensi sul commercio equo e la “parità di condizioni” e poi annunciò che stava fornendo un sollievo speciale ai produttori di acciaio che non avevano nulla a che fare con le leggi sulle presunte importazioni sleali.
L’amministrazione Bush sapeva che i dazi sull’acciaio avrebbero distrutto posti di lavoro nel settore manifatturiero americano, ma li impose comunque. Il principale consigliere economico di Bush, Glenn Hubbard, “ha pubblicato analisi dettagliate contro i dazi, comprese le perdite di posti di lavoro stato per stato che ha previsto per il settore manifatturiero”, scrisse il Washington Post. Le perdite di posti di lavoro stimate non sono mai state rese pubbliche. Un’analisi economica della fine del 2001, condotta dalla società di consulenza Trade Partnership Worldwide, stimava che “i nuovi dazi sull’acciaio costeranno circa otto posti di lavoro americani per ogni lavoro siderurgico protetto”.
I prezzi dell’acciaio laminato a caldo raddoppiarono tra il momento in cui l’ITC raccomandò i dazi sulle importazioni, nel dicembre 2001, e l’estate del 2002. Anche i produttori statunitensi vennero devastati dalla carenza di prodotti siderurgici, poiché i dazi interruppero il commercio internazionale e scoraggiaribi le esportazioni verso gli Stati Uniti. In molti casi le acciaierie statunitensi infransero i contratti e costrinsero i clienti americani a pagare prezzi molto più alti. La Consuming Industries Trade Action Coalition ha stimato che “l’aumento dei prezzi dell’acciaio è costato 200.000 posti di lavoro americani e $4 miliardi in salari persi da febbraio a novembre 2002”. Un’analisi dell’ITC ha concluso che i nuovi dazi costarono alle industrie consumatrici di acciaio $9 per ogni dollaro di profitti aggiuntivi. Alla fine del 2003, di fronte alle minacce di ritorsioni commerciali europee dopo le sentenze del World Trade Center contro i dazi, Bush li sospese.
Trump ha fatto eco alle follie dei presidenti repubblicani pre-Depressione come Herbert Hoover. I dazi sull’acciaio e sull’alluminio hanno scatenato ritorsioni estere che a loro volta hanno distrutto circa trecentomila posti di lavoro. Il 7 aprile 2021 la segretaria al Commercio Gina Raimondo ha dichiarato che tali dazi “hanno contribuito a salvare posti di lavoro americani nelle industrie dell’acciaio e dell’alluminio”. Li ha anche giustificati come un modo per “livellare il campo di gioco”. La Raimondo ha continuato la tradizione dei segretari del Commercio rifiutandosi di utilizzare la partita doppia, guardando invece esclusivamente al profitto delle industrie protette. Sfortunatamente l’amministrazione Biden ha considerato quei dazi un brillante successo.
Se il protezionismo producesse competitività, i produttori di acciaio americani sarebbero diventati leader mondiali già da tempo. I dazi sull’acciaio sono una delle linee di politica anti-industriali più sfacciate, un avvertimento eterno sull’incorreggibilità dei politici a caccia di voti e contributi elettorali. Il futuro della politica commerciale è cruciale per il futuro della libertà. Ogni restrizione su un venditore estero è un controllo su un acquirente americano. Non dovrebbe essere un crimine federale che i produttori americani possano acquistare acciaio a prezzi bassi.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/
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