Le insidie nell’attuale guerra finanziaria mondiale

L’articolo di oggi vuole essere l’ennesima pistola fumante a supporto di una tesi sposata a lungo su queste pagine: esiste una fazione avversa all’America stessa oggi che la governa. In caso contrario, non si spiega razionalmente il motivo per cui coloro che dovrebbero salvaguardare il benessere fiscale della nazione, la stiano facendo sprofondare volontariamente. Ciò si spiega con logica coerenza se si presume che coloro che fanno parte dell’amministrazione attuale non siano altro che vandali, il cui scopo è distruggere gli USA. Mi riferisco ovviamente alla cricca di Davos, i cui infiltrati sono in entrambi gli schieramenti politici e nel tempo hanno dimostrato di essere ottimi compagni di letto (es. Bohener, McCarthy/McConnel, Johnson, ecc.). Solo la Federal Reserve sta dimostrando, invece, di opporsi alla calamità fiscale che viene attivamente promossa da Capitol Hill. È in questa chiave che dovete leggere l’articolo di oggi. La guerra tra queste due fazioni si surriscalderà ulteriormente l’anno prossimo e raggiungerà il culmine nel 2026. Ricordate, la componente finanziaria è sempre superiore a quella politica ed ecco perché se la cricca di Davos avesse messo la Brainard al posto di Powell adesso avrebbe dato scacco matto agli USA. Facendo aumentare il valore del dollaro e facendo leva sui carry trade abilitati da uno yen a prezzi ridicoli, l’effetto morsa sull’euro è schiacciante; effetto ulteriormente accentuato dal fatto che Cina e partner di scambio stanno progressivamente usando lo yuan come valuta di saldo (soprattutto nel mercato energetico) e questo contribuisce ancor di più a far arretrare l’euro. Il risultato, quindi, è la Federal Reserve che continua a fare pressione sul dollaro prosciugando biglietti verdi dall’economia mondiale e contraendo il mercato degli eurodollari (non sotto il controllo della FED ma di Londra, quindi togliendo potere agli inglesi) e i cinesi che vendono titoli di stato statunitensi per puntellare lo yuan e le loro economie satelliti, chi viene schiacciato in mezzo è l’euro, l’Eurozona e la sterlina. Chi sta cercando di sostenere, disperatamente, l’euro sono la Gran Bretagna (non a caso si fanno insistenti le voci di un’inversione della Brexit) e l’amministrazione Biden, ma il controllo sta sfuggendo di mano come abbiamo visto il mese scorso in questa intervista a Draghi. Infatti non è una questione squisitamente finanziaria, ma anche energetica laddove l’UE, a causa delle sanzioni (fallimentari) alla Russia, paga la materia energia dalle 2-3 volte in più rispetto al passato. Questa, in parole povere, è una guerra di attrito in cui la strategia è ridurre progressivamente le riserve dell’avversario. Vincerà chi avrà il fiato più lungo. Gli Stati Uniti stanno potenziando la produzione interna, ridotto le importazioni, persuaso aziende tedesche a delocalizzare sul suolo americano e continuano a sostenere l’onshoring di quelle aziende nazionali che in passato avevano delocalizzato altrove, oltre ovviamente ad avere il dollaro e una discreta capacità di produrre energia a basso costo internamente (limitata da Biden, ma facilmente ripristinabile data la natura politica di tale blocco). L’Europa, invece, non ha mai avuto una grossa capacità di produzione propria di energia e il tessuto industriale europeo è in deterioramento: la Germania, in particolar modo, è in frenata da mesi e di recente l’Italia è uscita dalla nuova “via della seta” cinese con tutte le conseguenze del caso per l’approvigionamento di semilavorati (linea di politica anche condivisibile sotto alcuni punti di vista, ma in questa fase storica non fa altro che aumentare le frizioni con la Cina che, come gli USA, ha ridotto importazioni/esportazioni in Europa). Elevati deficit di bilancio da rifinanziare, elevati costi dell’energia e fornitura di semilavorati dalla Cina in calo equivalgono a un continuo calo della produzione industriale europea da qui a tempo da definirsi. E questo panorama vi dà l’idea di chi tra Stati Uniti, nonostante i loro problemi economici, ed Europa avrà il fiato più lungo.

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di David Stockman

Eccone una che vi farà rizzare i capelli: il Tesoro degli Stati Uniti ha chiuso i conti per l’anno fiscale 2023, portando il deficit cumulativo quadriennale a $9.000 miliardi!

Proprio così: durante gli ultimi 1.461 giorni (dall’anno fiscale 2020 al 2023), lo Zio Sam ha generato  $6,2 miliardi in inchiostro rosso ogni giorno, compresi i fine settimana, le festività e i giorni di neve. Per chiunque tenga il punteggio a casa, si tratta di $4,2 milioni in inchiostro rosso al minuto.

A scopo di prospettiva, ecco quanto tempo è stato necessario per generare i primi $9.000 miliardi di debito pubblico degli Stati Uniti: ci sono voluti 43 presidenti e 219 anni per raggiungere $9.000 miliardi di debito pubblico nel luglio 2007. Quindi da lì in poi l’orologio del debito nazionale ha accelerato la sua corsa.

Valore di mercato del debito pubblico in circolazione, dal 1940 al luglio 2007

Si scopre poi che se si rimuovono tutti i fronzoli statistici dai numeri del bilancio, il deficit federale per l’anno fiscale 2023 è stato di oltre $2.000 miliardi, ovvero il doppio del livello comparabile nell’anno fiscale 2022. I numeri ufficiali, ovviamente, non sembrano altrettanto allarmanti, attestandosi a $1.400 miliardi per l’anno scorso e a $1.700 miliardi quest’anno.

Ma come ha spiegato di recente il Wall Street Journal, questo confronto è molto fuorviante perché include uno spostamento di bilancio di $380 miliardi tra i due anni. Sembra che la cancellazione del debito studentesco di Sleepy Joe sia stata registrata come “costo” nel settembre 2022, ma poi sia stata cancellata nell’anno fiscale 2023, trasformandolo in un gigantesco “risparmio”!

Quando l’amministrazione Biden ha annunciato il suo piano per condonare il debito studentesco detenuto da 40 milioni di americani nel settembre 2022, ha iscritto a bilancio il costo a lungo termine del programma: $379 miliardi in una sola volta, anche se di fatto non è stato speso denaro per quell’anno […]. Ma nel giugno 2023 la Corte Suprema ha annullato il programma di cancellazione del debito, il che significa che la maggior parte di quel denaro non sarebbe stato effettivamente speso. Invece di aggiornare i numeri del deficit dello scorso anno, il Tesoro ha registrato i cambiamenti come un taglio alla spesa di $333 miliardi nell’agosto 2023.

Non uso alla leggera l’epiteto “statistica creativa”, ma prenotare i prossimi 50 anni per il rimborso dei prestiti studenteschi durante il solo mese di agosto 2023 equivale esattamente a questo. Tuttavia Joe Biden ha l’audacia di continuare ad affermare di aver tagliato il deficit federale!

In realtà egli è circondato dai soliti keynesiani quando si tratta di politica fiscale, ma anche loro non hanno storicamente raccomandato un aumento del deficit in un periodo di cosiddetta piena occupazione, soprattutto quando il tasso di disoccupazione ufficiale è solo del 3,8% e l’economia è ancora in difficoltà a causa della grave carenza di manodopera. Infatti il deficit da $2.000 miliardi per l’anno fiscale 2023 ammonta al 7,5% del PIL, un livello che avrebbe dovuto verificarsi solo nel momento più oscuro di una grave recessione.

Inutile dire che queste squallide cifre fiscali sono solo un ulteriore atto d’accusa contro il nefasto governo dell’Unipartito a Washington. Quando si finanzia una macchina della guerra da $1.300 miliardi, s’isolano $4.200 miliardi all’anno in previdenza sociale, Medicare e altri diritti sociali, si riempiono fino all’orlo i barili della spesa discrezionale interna, si allontana ogni idea di aumentare le entrate e si deve affrontare l’esplosione del costo degli interessi netti sul debito pubblico, il risultato sono $9.000 miliardi sotto forma di tsunami d’inchiostro rosso… e crescerà negli anni a venire.

Infatti questi numeri sono ora incorporati nella torta fiscale. Il mondo è sul punto di scoppiare in un conflitto più allargato in Medio Oriente e l’Ucraina è appesa a un filo, entrambi a causa della perfidia neoconservatrice degli ultimi decenni. Quindi il budget complessivo per la sicurezza nazionale da $1.300 miliardi (es. Dipartimento della Difesa, assistenza e operazioni di sicurezza internazionali, veterani) non potrà far altro che salire.

Nel frattempo Donald Trump ha virtualmente bloccato la nomina repubblicana anche se finisse dietro le sbarre prima del novembre 2024. Comunque andrà a finire prevarrà l’undicesimo comandamento del partito repubblicano: non toccare la previdenza sociale o l’assistenza sanitaria statale, anche se costeranno $34.000 miliardi nel prossimo decennio; i loro fondi fiduciari saranno insolventi entro l’inizio del prossimo decennio e migliaia di miliardi di questi benefici rappresentano pagamenti, non un ritorno sulle imposte versate da contribuenti nel corso della loro vita lavorativa.

Per quanto riguarda la “piccola” parte del bilancio (meno del 15%) chiamata “spesa discrezionale non legata alla difesa”, il partito repubblicano ha già firmato i suoi documenti di confessione: tra l’anno fiscale 2017 (l’ultimo bilancio di Obama) e l’anno fiscale 2021 (il bilancio finale di Trump), questa componente fiscale è aumentata da $610 miliardi a $895 miliardi. Si tratta di un aumento del 47% in un momento in cui il partito repubblicano controllava il diritto di veto alla Casa Bianca e in una o entrambe le camere del Congresso.

E poi si arriva alla ciccia, vale a dire, l’impennata del costo del servizio del debito a causa della normalizzazione a lungo ritardata, ma non ancora completata, dei tassi d’interesse.

Semmai ci fosse qualche dubbio sul fatto che Washington stesse vagando in un Paese dei balocchi grazie alla drastica soppressione dei tassi d’interesse da parte della FED, i dati relativi al costo medio ponderato del servizio del debito dovrebbero risolvere la questione.

Alla vigilia dell’anno fiscale 2020 e della summenzionata esplosione del debito pubblico da $9.000 miliardi che ne è seguita, il debito federale detenuto dal pubblico era già più che triplicato: da $5.000 miliardi alla fine del 2007 a quasi $17.000 miliardi alla fine dell’anno fiscale 2019. A causa della ZIRP, il tasso d’interesse medio ponderato sul debito federale era solo del 2,5% al ​​30 settembre 2019.

Poi è arrivata l’esplosione dei finanziamenti, ma, mirabile dictu, il costo del servizio del debito federale ha continuato a diminuire. All’inizio di marzo 2022, quando la FED si è finalmente concentrata sulla lotta all’inflazione, il tasso d’interesse medio ponderato ha raggiunto solo l’1,56%!

Proprio così. Washington era nel mezzo della più grande frenesia di spesa e d’indebitamento della storia, ma grazie alla FED il rendimento medio del debito pubblico era sceso del 40%.

Da allora la realtà si è intromessa dolorosamente: entro la fine dello scorso agosto 2023 il costo ponderato era al 2,92%, di conseguenza il tasso annuale della spesa per interessi è salito da $578 miliardi nel terzo trimestre del 2019 a $910 miliardi nel secondo trimestre del 2023. Si tratta di un aumento del 57%, ma è appena un riscaldamento per ciò che sta arrivando.

Praticamente ogni scadenza dei titoli del Tesoro, dai buoni a 30 giorni alle obbligazioni a 30 anni, viene attualmente scambiata a +/- il 5,0%, il che significa che quando le attuali scadenza dovranno essere rinnovate, il servizio del debito aumenterà di ulteriori $500 miliardi all’anno, ancor prima che nuove migliaia di miliardi vengano aggiunte al totale del carico di debito dello Zio Sam.

E oltre a ciò, il 5% non è certamente il limite massimo sui rendimenti dei titoli del Tesoro. Dato l’indebitamento pubblico galoppante e il tasso di risparmio storicamente basso della nazione, il rendimento medio del debito pubblico probabilmente si dirigerà ancora più in alto. E questa volta non ci sarà alcun salvataggio da parte della FED, perché l’inflazione non sta scendendo, il che significa che un nuovo ciclo di “denaro facile” si sta affievolendo lungo l’orizzonte.

In questo contesto la politica economica del partito repubblicano è una favola direttamente dal Paese delle fantasie. Vale a dire, anche se vogliono ancora di più per il complesso militare e stanno prendendo a gran voce per lo stato sociale, si sentono comunque obbligati a chiedere che i tagli fiscali di Trump vengano prorogati in modo permanente quando scadranno nel 2025.

Ciò costerebbe la bella cifra di $3.500 miliardi in mancate entrate nel prossimo decennio e si aggiungeranno ai $25.000 miliardi in nuovo debito.

In breve, l’Unipartito ha affidato le finanze della nazione a una macchina fiscale apocalittica che è letteralmente inarrestabile.

[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/

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